Senza legittimità è il potere

Senza legittimità è il potere. Ed esso lo è dal momento stesso in cui si pone come tale: dal momento stesso in cui si pone come semplice potere e non più come rapporto di potere, come tensione fra soggetti o singolarità (è la lezione di Foucault). E’ nel suo erigersi all’altezza autorevole di potere senza rapporto, senza misura e dunque smisurato, che esso si ritrova senza alcuna legittimità. Per questo, un potere che si voglia tale, un potere che abbia rigettato nell’accidentalità l’altro termine del rapporto, non può che mentire, e sostituire il rapporto di potere con un rapporto di menzogna (rapporto nel quale non è più in gioco la tensione fra due termini, bensì la violenza di un discorso che, parlato dal potere, si accanisce sulla vittima).
Affinché il proprio discorso non si risolva in menzogna, il potere dovrebbe lasciar parlare altrui in merito alla propria legittimità, l’altro termine del rapporto, il punto di vista esterno irriducibile al potere che per le teorie del garantismo (Ferrajoli) è presupposto essenziale per ogni dottrina democratica: laddove tale punto esterno manca, ecco che il potere si auto-fonda e si auto-legittima come valore in sé, occultando quella stessa relazione che lo costituisce e che permane come un debito insolvibile.
Non può darsi qualcosa come un passaggio legittimo dall’assenza di diritto al diritto: non essendo data in quanto tale, una simile pretesa di legittimità sarà sempre da instaurarsi, nell’après-coup con il quale il potere istituisce se stesso. In tal senso, Nancy può dire che «l’État n’est jamais en première instance que le coup d’État». Solo in seguito esso compirà quel particolare maneggio, quella menzogna, con la quale, hegelianamente, il falso si dimostrerà essere un momento del vero. In altri termini, solo successivamente la legalità delle procedure interverrà a supplire l’assenza di legittimità, a cancellarne la traccia. Fu il tentativo perseguito da Hans Kelsen con la sua dottrina pura del diritto, il quale aveva disatteso questione della legittimità, evitando così di mentire su essa, attraverso la formulazione di un ordinamento immanente a se stesso, la cui legittimità consistesse ormai soltanto nella sua legalità. Ma una simile legalità necessita di un credo e di credito, richiede una fiducia incondizionata verso il potere, creditore fraudolento che mentirà per il solo fine di ottenere fiducia. E’ proprio questa componente volitiva a determinare l’immancabile carattere teleologico di ogni menzogna, quale atto indirizzato a far credere, atto che si indirizza all’altro (vi è menzogna solo di fronte e nei confronti di un altrui) ma il cui scopo non è altro dal far credere. E questa fiducia», ricorda Schmitt, «resta il presupposto di qualsiasi costituzione che organizzi lo Stato di diritto nella forma di uno Stato legislativo. In caso diverso, lo Stato legislativo sarebbe un assolutismo ancor più complicato, la pretesa di obbedienza incondizionata sarebbe una manifesta violenza». La menzogna – la sua narrazione ed il credito ad essa concessa – risulta essere così il solo elemento che distingue la violenza manifesta da quella dissimulata.
Michail

AH AH!

-Ancora non ti stufi a giocare con me.
-Perché dovrei, sei un buon giocatore.
-Sì ma vinci sempre, insomma, io al tuo posto avrei già smesso da un po’…a meno che non continui perché ti faccio un po’ pietà, per farmi piacere. Lo dici anche tu che il “Sistema Colle” è un’apertura da pensionati
-In effetti per giocare seriamente a scacchi dovresti imparare qualcosa di meglio, di meno noioso soprattutto. Che vuoi, te l’ho detto più volte che potremmo studiare qualcosa assieme ma tu devi sempre lavorare, mille riunioni, non riusciamo quasi neanche a cenare in pace in famiglia che c’è sempre qualche tuo collega con cui devi discutere dell’ennesimo affare per l’ennesima occasione e bla bla bla. Forse preferisci giocare con i tuoi soldatini.
Sguardo malizioso di lei
-I miei soldatini…non c’è neanche più gusto a mandarli a morire. Una volta poteva essere stimolante studiare dei sistemi per assoggettarli psicologicamente, ora è tutto così facile. Una siringa basta per iniettare un microchip grande meno di granello di sabbia e sono più automi di prima. Ripeto, non c’è gusto. Tocca a te.
– Muovo la torre in e8. Come non c’è gusto, è esattamente come stai facendo ora con me. No?
-Non proprio. Ancora meno variabili casuali, i pezzi sono acora più vuoti. Ma sai cosa faccio: ogni tanto li spengo, così, per destabilizzarli un po’. Giusto quel tanto che basta per creare un po’ di confusione. E per ricordarmi che sono l’unico a non avere subito l’iniezione.
-Ahaha, l’unico, chiaro. In effetti anche essere adulati da robot non deve essere molto gratificante.
Lei sogghigna
-Oh, no ma loro mi adorano ancor di più quando li spengo, sai. O meglio, non li spengo, li sospendo. Li chiamo i “Parzialmente Sospesi“. Riesco ad eccitarli a volte quasi di più quando non sono attivati i microchip. Una volta ne ho ricevuto uno che mi ha detto che…
-Sì, sì, so già la storia. Me l’hai raccontata mille volte. Muovi va
-Che prosaica. Uff. Pedone in e4
-Ardito.
Continuano la partita
Lui comincia a sentire qualcosa di strano dentro di sé e lo comunica alla moglie
Lei lo guarda. Poi parla d’altro
– Nostro figlio sta mangiando troppo in questo momento.
Nostro figlio sta correndo troppo in questo momento.
Chiamo la maestra
Il malessere di lui peggiora
-Oh dove stai andando, rimani qui a finire la partita
-Beh sto male, cerco qualche pastiglia da prendere
-Tu ora muovi
-Mi suona come un “tu ora muori”, amore
-Hai fame ora?
-Ora mi è venuta fame
-Hai sete ora?
-In questo esatto istante, ora che me l’hai detto, mangerei. Sì ho fame
-Muovi, non fare il bambino
-Mi suona sempre più come un “muori”
-Ma smettila di fare la vittima. Ora devo andare a prendere il marmocchio, ne sta combinando troppe in questi giorni, non ha ancora imparato che non si disobbedisce alla mamma
-Ma resta, ti prego, resta con me, lascialo a scuola!
Lui si piega per i crampi alla pancia
-E tuo figlio? Non vedi che razza di succo di frutta sta bevendo? Sguardo stizzito di lei
-Sto male Sguardo allucinato di lui
-No, tu non stai male, semplicemente non hai voglia di accompagnarmi. Sguardo accusatore di lei, sguardo anche un po’ compiaciuto
-Sto male, davvero
Strascica le parole
-Io esco. Sguardo soddisfatto di lei
-Non riesco a muovermi.
-Non ti preoccupare, amore. E’ tutto sotto controllo.

Ada

Verona 20 febbraio

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Neanche un mese fa a Verona pioveva un sacco, tanto che di sera il mio Virgilio cercava di mostrarmi almeno piazza Dante, ma Cristo come pioveva, e poi c’avevo le Clark contraffatte, che non ci han pensato due volte a marcire all’istante. Però è bella piazza Dante, no? Si fanno tutti quei bellissimi aperitivi… Lo spritzino delle sei… Facile la vita eh? Con lo spritzino… Pioveva dunque e ho visto tutto come in carrellata, coi piedi zuppi, non si riusciva mica a godercisi la piazza Dante. Poi l’Adige, impetuoso, elegante, parabolico e l’ambra dei pezzi di Roma, le luci basse e calde, i riflessi delle luci basse e calde e dell’ambra dei pezzi di Roma giù lungo l’Adige, impetuoso, elegante, profondo. Pioveva ancora. E allora una birra, coi piedi bagnati. La deriva bagnata è particolare, alla fine ti incula.

Il giorno 2 c’erano un sacco di bandiere nere davanti all’Università e gente che si aizzava verso qualcosa. Poi altra gente vestita di scuro, questa volta più precisi, coordinati, con le armature e gli scudi, che premevano perché si mettessero giù i cartelli. Non so bene se per i neri del primo tipo o per quelli del secondo, ma mi si stringevano il petto e la gola, che quasi mi veniva da piangere. Gli altri sembrava che no, alla fine loro c’eran più abituati forse, e suonavan per terra con un pezzo di charleston.
C’è un bel dipartimento di filosofia poi, a Verona. Anzi forse non è un dipartimento di filosofia e basta, forse è spurio, però ci son gli armadietti con le opere di Kant in originale, a caratteri gotici. E un sacco di libri, vorrei proprio vedere chi se li legge quei libri, perdio, di Wolff, in tedesco anche quelli, mi sembra. L’opera completa. E poi si è aperta una porta lungo il corridoio di filosofia, e c’era la voce di uno, e cercavo di captare bene la voce, intanto, perché il resto non lo vedevo.

Una cassa di radicchio a Verona costa circa tre euro. Una cassa! Dopo però è un pò impegnativo cucinarlo tutto prima che marcisca, è una corsa contro il tempo. Per questo ci son dei ragazzi che hanno organizzato un aperitivo in osteria, così poi si poteva cucinare non dico tutta la cassa, ma almeno metà della cassa dei radicchi. Dopo l’aperitivo han suonato, i ragazzi, ma c’era un signore attempato e ubriaco che si è lamentato perché ci si divertiva senza architettura, troppo convivio e pochi accordi. Che la musica o la fai tutta la vita o non è che puoi improvvisare così. Perdio, va bene, lo puoi fare, son ragazzi, potran pure divertirsi, però vuoi mettere con chi ha dato la vita, alla musica? Lui l’aveva data la vita, alla musica, diceva. E allora te lo guardi e pensi: questo qua l’ha data la vita, alla musica, forse. Ma non sarà mica che la rivuole indietro adesso, da noi?

Aleinala

Anche se vien giù la tempesta

Selvaggi sulle colline si arrampicano, discendono, si disperdono tra i cipressi rimanendo per sempre visibili dalle case più base, lungo il fiume. Ombre oscurate al riparo dal sole tra le fronde. Poi, avvolti in corti grembiuli neri, corrono gli abitanti delle torri in numerose processioni pomeridiane; inseguono apparizioni di animali che, portati dal vento, sconvolgono i cespugli come temporali. L’uomo al tamburo sta fermo al pioppo che divide il colle, tra settentrione e meridione, in due discese tremende, alla campagna, ai ponti.

Il popolo della città abita silenziosamente, con i suoi fabbricati e le sue opere, le ore soleggiate del giorno, che la notte è ferma ed è dominata dalle case senza più luci.
Le pareti nei vicoli sono un lontano ricordo delle mura altissime sui colli, dove ogni istante percorrono, vigilanti identici alle prime avventuriere della pianura, così abituali al cammino sulle strade dei raccolti.
Sembra possibile confondere un passante con un altro, così come una torre all’altra, così come un ora con quella dopo.

Immoto pomeriggio e curve di case, mai troppo elevate, tra balconi a cui s’affacciano le governanti issate sul lento lavorio del giorno. Tavole riempite e svuotate, oggetti spostati e rimessi al loro posto, divise tolte, piegate e riaperte, prima che la notte fermi ogni cosa.

Ci sono gruppi di persone che a gruppi, a collettivi, camminano urlanti nella contrada del fiume. Bandiere nere s’aprono e s’innalzano, con i tumulti, scale e pulpiti e promontori, affatto diversi dal quotidiano farsi e disfarsi delle intenzioni. Il profeta calvo discute con i figli: di leoni che della preda fanno pasto. Ad un cenno di costui, tutti i cuori sono unanimi e combattenti: c’è da avanzare innanzi al nemico, come eroi che in schiere son tutti uguali e tutti valorosi.
La muta si compone e si muove a passo lesto, con le bandiere, gli araldi e le armi pronte. Cento leoni aizzati.

Dalle torri s’avvista tempo di burrasca e le vedette urlano nei canaloni che scendono a valle: corrono tutti, fuggono dal fiume e dalla contrada oltre i ponti. E così le belve perdono il loro comandante, caduto a terra dopo uno sbandamento dei fratelli. In pochi momenti, la piazza è svuotata, prima del notturno, tra le ali che formano lo spazio perduto del deserto.

Pare che a Verona, tra cornicioni e ringhiere, accrescano in urti e in mucchi, individui in corsa con bandiere nere sulla schiena. Il carro che sostenne il comando, è lanciato solitario, nel luogo dove la tempesta è più forte. E che nemmeno le tettoie riparino i credenti che lo seguono in lunghi balzi.

Tettoia

L’università è qui, alzatevi

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La situazione che oggi stiamo vivendo è quella di uno slittamento di significati. I piani simbolici della realtà si stanno confondendo tra loro. Per questo ci sentiamo in difficoltà a dire quel che ci capita e di conseguenza a sapere come e dove aprire spazi con inventiva e su cosa concentrare la critica. La difficoltà è accresciuta, ci sembra, dal fatto che far emergere in questo momento esigenze e desideri sembra di aggiungere altri elementi in più agli slittamenti in atto. Eppure proprio mettere a fuoco il desiderio che abbiamo di una università che sia fedele ai momenti più vivi dell’insegnamento e del pensiero può rappresentare quel punto fermo di cui un po’ tutti avvertono la necessità.
Iniziamo dunque questo testo col descrivere quel particolare tessuto vivente che non solo crea l’università, ma da cui l’università viene alimentata, cioè la relazione studenti-docenti. Una relazione, che in genere sottovalutiamo perché è esperienza quotidiana, prevista e scontata nelle nostre mansioni, ma che ha una forte potenzialità di trasformazione. È movimento aperto verso qualcosa che si scopre nel processo. Chiama ad un rischio perché lo scambio è sempre esposto al fallimento della possibile creazione comune di senso.
Le relazioni con le/gli studenti, pur nel tempo limitato dei corsi, dei seminari, delle discussioni per la tesi di laurea, delle conversazioni orientate allo studio, aprono alla sperimentazione dell’insegnare e imparare. Attraverso questo scambio di pensiero studenti e docenti non solo danno parole alla direzione presa dalla realtà ma soprattutto discutono – direttamente e indirettamente – di come agire in rapporto ad essa.
Insegnare e imparare: si tratta di esperienze e non di fatti oggettivi, progettabili e costruibili. Le esperienze possono essere raccontate ma non programmate; trovano senso in processi, che sono solo in parte consapevoli e mostrabili agli altri. Eppure parlarne, cercare di capirle e confrontarci con gli altri fa crescere la nostra consapevolezza e la nostra capacità di agire con inventiva ed esattezza in aula e negli altri luoghi – non convenzionali – dell’insegnare e imparare a pensare.
L’incontro di differenti esperienze singolari stimola la circolazione di pensiero vivente. Ha una forza che ci impegna, ci mette in gioco nei confronti dell’altra e dell’altro. Non è affatto indifferente che i nostri interlocutori siano donne o uomini, porta anzi a numerose, diverse conseguenze. La presenza con altri ci dà una forza che ci fa andare oltre ciò che è definito e codificato nell’ordine del pensabile. Ha un potenziale di attrazione che assomiglia a quello della calamita. Attrae e respinge, sposta, disloca. È intessuta di relazioni che si modificano, si sgranano e si intensificano. È un punto vitale dell’insegnare e imparare a pensare. Non è un caso che le tecniche di potere tendano a risucchiare la presenza, a prenderla in ostaggio, ad adoperarla strumentalmente.
Al centro della nostra riflessione poniamo le pratiche di insegnare e imparare pensiero. Le pratiche hanno una forza istituente diversa e più solida di quella delle leggi amministrative di riforma dell’università. Sono le pratiche che danno inizio a una realtà sperimentale, e il loro valore dipende dalla capacità di durare nel tempo e da quello che le singole e i singoli riescono a portarvi. Non si tratta di avvenimenti isolati. Sarebbe interessante fare una mappa delle pratiche avviate nel nostro ateneo. Ad esempio ci sono laboratori per la scrittura e la discussione della tesi di laurea. Laboratori liberi, alcuni avviati da docenti, altri da studenti. Non hanno un riconoscimento istituzionale, né sono istituiti per legge, ma nascono per il desiderio di chi vi partecipa.
Le pratiche sono processi, dove sono in campo relazioni vive. È inevitabile che in esse si diano delle regole, che danno ordine ad un movimento contestuale. Però questo atto rimane vitale, se le regole vengono confrontate di volta in volta con esigenze, desideri, accadimenti e con le difficoltà che via via si presentano. Altrimenti è molto probabile che le regole diventino formali, vuote. Questo finisce per distruggere il tessuto vivente delle relazioni, che di per sé non è formalizzabile. Facciamo riferimento, per portare un esempio, all’esperienza del master sulla “Filosofia come via di trasformazione”, a cui stiamo collaborando. Desiderio, ascolto degli scacchi, imparare dall’esperienza già avuta: tutto ciò porta a modificare le regole stesse iniziali che ci siamo dati. Questo mantiene l’iniziativa coinvolgente per noi che vi partecipiamo.
Perché insistiamo così tanto sulle pratiche? Le trasformazioni in atto hanno cancellato le divisioni tradizionali dell’università. È venuta meno l’identità precostituita dei luoghi del sapere accademico. Le maglie sono state disfatte. Per questo ci troviamo confrontati direttamente con la questione di cosa sia pensare la realtà e che cosa significhi saper fare ricchezza simbolica delle esperienze vissute assieme. Ragionare sulle pratiche condivise ne è venuto di conseguenza.
Di tutt’altro registro è il modo di intervenire del ministero su questa smagliatura intenzionalmente provocata. Infatti le linee guida ministeriali consistono nel favorire l’organizzazione di centri di ricerca che concentrino più forze, più finanziamenti, più risorse, più gerarchia, dando un ordine centralizzato e spingendo ai margini tutti coloro che creano relazioni di ricerca fluide e legate ad una reale affinità. La mossa che ci sta a cuore non consiste soltanto nel criticare questo, ma soprattutto nel mostrare che l’università vive perché fa anche molto altro rispetto ai codici disciplinari, alle indicazioni ministeriali, all’apparato gestionale pesantemente burocratico, i cui fini sono oggi dettati da un’agenda esterna alla riflessione, conoscenza, sperimentazione che chi lavora nell’università ha delle proprie pratiche di insegnamento e di ricerca di pensiero.
Il rapporto tra esperienza e pratica consente di “far altro” perché è in grado di valorizzare le differenze attive sul campo. Queste, benché vengano spesso recepite in una società tecnocratica come un fattore di disturbo e di rallentamento delle procedure, costituiscono un valore aggiunto su cui riteniamo che sia imprescindibile investire. Rispetto all’idea di armonizzazione dei conflitti e alla conseguente cancellazione delle differenze, crediamo sia possibile “fare altro” ovvero fare università come situazione in cui succede dell’altro: succede formazione non solo come trasmissione, ma anche come trasformazione; ha luogo l’elaborazione singolare di un pensiero; si creano relazioni di scambio e di crescita.
Tutto questo si articola in tre momenti decisivi: 1) nella valorizzazione della conoscenza in quanto conoscenza critica e condivisa; 2) nell’apertura a pratiche che consentano di vivere i luoghi decisionali dell’università come altrettanti luoghi di discussione e di partecipazione in prima persona (a iniziare dal dipartimento); 3) in una pratica della didattica in cui ogni docente è libero di proporre tematiche e modalità che reputa più idonee alla formazione dei suoi studenti. Benché questa idea della lezione rappresenti un’anomalia tutta italiana, noi riteniamo che costituisca un elemento di valore all’interno del panorama europeo. Si tratta del rapporto tra libertà di insegnamento e libertà di apprendimento.
In particolar modo può essere interessante soffermarsi sul secondo punto, quello relativo alle strutture di governo dell’università. Queste strutture, e in particolar modo quella del dipartimento come struttura in cui a valere è la presenza diretta e non la rappresentanza, possono essere il luogo di un confronto sulle esigenze della didattica, sul senso dell’insegnamento, sulle scelte politiche di governo di ateneo. Il dipartimento, in quanto luogo di una politica in presenza, ci sembra essere il luogo in cui rendere pubbliche le richieste, le esigenze, le mancanze, le stesse ricerche esistenti. È qui che è possibile non solo amministrare la vita universitaria, ma anche creare una mappatura che renda conto di una vita (scientifica, didattica, di formazione) che non si lascia formalizzare, ma che occorre tenere in considerazione come la risorsa più importante per l’università.
Se occorre rendere conto di ciò che è formalizzato, non è possibile trascurare ciò che non è formalizzabile. Il sapere non si fa discreditando le capacità singolari, e quindi le altrettanto singolari differenze, che hanno un valore intrinseco indecidibile, ma unicamente valorizzando la capacità dei singoli di farsi carico di se stessi e del contesto nel quale operano.
Questa esigenza prevede una assunzione e una appropriazione effettivamente politica del dipartimento, affinché questo non sia più solo il luogo in cui le decisioni vengono assunte in base a un principio di esclusione della partecipazione, per cerchie ristrette, ma diventi un luogo di senso in cui la discussione sia possibile. Sembra parlare in questo senso anche la recente esperienza del movimento dei ricercatori che, nato nel segno della protesta contro la riforma ministeriale del sistema universitario, è diventato un momento di conflitto e di crisi capace di aprire un’elaborazione autonoma di pensiero e di relazioni, un momento di interlocuzione tra chi, pur lavorando in uno stesso contesto, non aveva mai avuto occasione di scambio nella normalità del funzionamento delle strutture universitarie e dell’insegnamento in genere. Vediamo qui l’esistenza di potenzialità che sono da rigiocare. Rispetto alla natura tendenzialmente statica della gerarchia, i ricercatori si sono dimostrati in grado di un altro livello di mobilità. Inoltre la riforma prevista dalla Legge 240 ha portato in Italia alla creazione di nuovi organismi che rompono con l’omogeneità di area e di disciplina. Rispetto alle storie dei singoli dipartimenti, spesso improntati a un criterio di sostanziale uniformità disciplinare, c’è stata qui l’occasione di ripensare la propria presenza dentro quel contesto. Questo implica una trasformazione che non si arresta allo scambio disciplinare o interdisciplinare, ma comporta anche la rimessa in gioco della propria situazione in un contesto mutato. È possibile vedere qui lo spazio per l’emergere di forme di conoscenza e di discorso che cambiano i rapporti di forza e che perciò non si limitano a un ambito particolare (quello dei ricercatori, per esempio), ma si trasmettono come istanze di cambiamenti alle aree circostanti. In questo senso, è augurabile che queste trasformazioni in atto non si traducano poi tanto in nuove forme di rappresentanza di tipo sindacale, quanto piuttosto in una inedita partecipazione, capace di andare al di là della pura logica della rivendicazione di settore.
Esiste indubbiamente una differenza sostanziale dei movimenti politici rispetto a quelli corporativi. Se questi ultimi sono volti a salvaguardare gli interessi particolari di una ristretta fascia, nei primi è il sapere come istanza comune a crescere, cambiando i parametri vigenti e il panorama di ateneo.
Lo stesso movimento degli studenti è caratterizzato da analoghe potenzialità, rispetto alle modalità preacquisite di comportamento e di condotta. Nato anch’esso in opposizione alla Legge 240, il movimento studentesco è diventato occasione di elaborazione di un sapere vitale e di una maturità politica.
Sono esperienze che si trasmettono da generazione a generazione, in modalità eterogenee rispetto a quelle abituali della trasmissione del sapere. Noi riteniamo che esse siano in grado di cambiare l’ambiente universitario, e quindi non solo la relazione tra studenti ma anche quella tra studenti e docenti. L’aver imparato a pensare e ad agire l’università diversamente ha significato farsi portatori e portatrici di una trasformazione in termini di autonomia della riflessione e dell’agire. Al di là delle logiche di subordinazione, è solo questa trasformazione a poter far diventare l’università un luogo di formazione politica.
Abbiamo scritto questo testo perché vorremmo trovarci per discuterlo assieme. Il nostro desiderio è che sia punto d’avvio di una riflessione con studentesse e studenti, con docenti e con tutti coloro che hanno a cuore l’università come uno dei luoghi più importanti per la vita comune.
Questo ci sembra il momento giusto per farlo.
Invitiamo all’assemblea il 26 marzo alle ore 9,30 avendo tempo fino alle 12 per discutere assieme. L’aula è la 1.5 del Polo Zanotto.
Gianluca Solla e Chiara Zamboni

Sonetto del regime democratico

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un indegno responso oracolare
a rigore la crescita del pene
nella monarchia prostituzionale
che ci taglierà responsabilmente
tutto il pene cresciuto con rigore
tutto eretto il pene dai cittadini
eletto sulle macerie e in una
qualsiasi erezione tagliato a pezzi
il pene tecnicamente nella gola
della cabina-armadio elettorale
che mimetizza la palude del
paese che voleva farci scappare
il morto portare a nuove stagioni
di attentati cioè lo stato e poi, dopo?
Niccolò

Sine nomine

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per le comunità rom
per Mor Diop e Samb Modou
per tutte le vittime senza nome

in principio era il logopedista
il logorroico l’afono
sotto mentite spoglie mortali
sotto falso nomen omen
sotto copertura di campo
innominabile ignoto semprein incognito inscatolato
sussunto in nero garantito
l’anonimato senza documenti
falsi incomprensibilmente fuoricampo incompreso dismemorato
solamente enumerato e

annichilito
Niccolò

Incongruenze

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Le inconguenze del Governo Monti sono molteplici, ma studiate talmente bene che sono impercettibili.
L’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni è una cosa assurda se poi metti il limite che gli isctutturi di scuola guida posso insegnare solo fino a 60 anni. Per i rimanenti 7 anni che fanno? Si cercano un altro lavoro? Chi non vorrebbe assumere un super giovane sessantenne che sa fare una sola cosa nella vita? Per non parlare poi delle vagonate di giovani disoccupati, che aspettano con ansia di occupare il posto di chi per raggiunti i limiti d’età, si ritira dalle scene del lavoro. Chi era già pronto a lasciare o vedeva il traguardo della pensione vicino, dovrà ancora attendere e concluderà gli ultimi anni della sua vita lavorativa svogliato e deluso perchè gli si è tolto da sotto il naso una cosa sua di diritto, la tanto agonata pensione.
“I giovani si devono abituare a non aver più un posto fisso. Poi diciamoci la verità. che noia il posto fisso!”. Compliemti per questa sparata Presidente Monti! Peccato che senza un posso fisso molte porte si chiudono. Come la possibilità di avere un prestito in banca, la possibilità di ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa…
E i datori di lavoro? Spenderanno tutte le volte soldi per regolarizzare le assunzioni o i rinnovi dei contratti? Si andrà ad incentivare il lavoro in nero che in Italia detiene già una percentuale maggiore rispetto a quello regolare. E questo con il sistema contributivo delle pensioni cosa porterà? A delle pensioni da fame, ammeesso che si riesca ad arrivare ad ottenerla.
“Il Governo tecnico è la soluzione migliore per uscire da un periodo di crisi perchè non è limitato da tutti i giochi politici”, questo era il ritornello che ci inculcavano qualche mese fa.
Sarà anche vero che non è ancorato dai favori politici, ma non si fa problemi a sfornare provvedimenti che vanno a favore di chi detiene realmente il potere all’interno di uno stato, banche e grandi aziende che producono economia.
L’altra sera ho sentito delle dichiarazioni di Veltroni che affermavano che grazie a Monti ci siamo salvati all’ultimo visto che eravamo sull’orlo di una catastrofe. Personalmente se questi sono i provvedimenti per salvarci, avrei preferito la catastrofe per vedere se finalemente il popolo di pecoroni come siamo noi italiani si sarebbe svegliato e avrebbe iniziato seriamente a lottare per i propri diritti.
Matte

Le profezie di Noam

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In questi giorni sono incappato in un interessante saggio di Noam Chomsky del 1990 intitolato “Contenere la minaccia della democrazia”. In questo breve scritto l’autore prende le mosse dalle riflessioni del filosofo illuminista David Hume, il quale, cercando di interpretare le origini e i principi delle forme di governo, riteneva che «siccome la forza sta sempre dalla parte dei governati, i governatori non hanno altro per sostenersi che l’opinione. E’ perciò solamente sull’opinione che si fonda il governo; e questa massima si estende ai governi più dispotici e militarizzati, nonché a quelli più liberi e popolari». Per Chomsky la realtà è però ben più arcigna e la storia ci mostra come l’idea secondo cui la forza stia dalla parte dei governati sia per lo meno discutibile. Malgrado ciò, il Noam, ritiene interessante l’intuizione di Hume e sostiene che essa riveli un “paradosso” reale: «perfino il governo tirannico si fonda in certa misura sul consenso e la cessione dei diritti è il segno distintivo anche di società più libere». Inoltre, ed è questo un aspetto centrale del saggio, ai nostri giorni la concezione del David è stata rielaborata con una cruciale innovazione: «il controllo del pensiero è più importante per i governi liberi e popolari di quanto lo sia per i governi tirannici e militarizzati». La logica è del resto molto semplice. Mentre una tirannia può controllare il nemico interno con la forza bruta, ad un governo (presunto) libero serviranno altri strumenti per impedire che le masse interferiscano nella sfera pubblica e tutti gli sforzi saranno orientati a ridurre il popolo in condizioni di passività politica. Perché ciò accada servirà che, come sostiene lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, «la maggioranza deve rassegnarsi a consumare fantasia. Si vendono illusioni di ricchezza ai poveri, illusioni di libertà agli oppressi, sogni di vittoria agli sconfitti e di potere ai deboli». Va detto che quello che abbiamo definito il “paradosso” di Hume sorge solo nel momento in cui accettiamo, come premessa, che l’istinto per la libertà sia una caratteristica della natura umana. E’ infatti l’impossibilità ad agire in base a quest’istinto che spinse Rousseau a formulare la classica doglianza dell’uomo che nasce libero ma si trova ovunque in catene. Sicuramente non concorderà con questi discorsi chi esclude che la libertà sia un diritto, ma per chi adotta la norma di buon senso secondo cui la libertà è un bisogno essenziale si troverà sostanzialmente d’accordo con il filosofo Bertrand Russell quando sostiene che l’anarchia è «l’ideale supremo a cui dovrebbe avvicinarsi la società». Torniamo però al paradosso e alla sua declinazione contemporanea per cui il controllo politico e culturale è più importante per i governi non dispotici. «Diventando la società sempre più libera e diversificata», sostiene Chomsky, «indurre alla sottomissione è sempre più complicato e svelare i meccanismi di indottrinamento diventa ancor più difficile». Abbiamo già detto che Noam non è convinto, come David, rispetto al possesso della forza e si chiede fino a che punto essa sia davvero dalla parte dei governati. Spesso si ritiene che le società siano libere e democratiche nella misura in cui è ridotta la coercizione statale. Questa è però la classica illusione liberale e se così fosse gli Usa sarebbero di gran lunga il paese più libero, ma è chiaro come lo stato sia solo un segmento del nesso di potere. «Il controllo su investimenti, produzione, commercio, finanza, condizioni lavorative ed altri aspetti di politica sociale risiedono in mani private, e lo stesso vale per l’espressione retorica, ampiamente dominata dalle grandi società che vendono il pubblico agli inserzionisti pubblicitari e che riflettono ovviamente gli interessi dei loro proprietari e dei loro mercati».
Fino a questo punto il saggio in questione non dice in realtà nulla di nuovo, si potrebbe dire che è il buon vecchio Chomsky di sempre. Quello che però mi ha colpito molto, al punto di volerlo condividere il più ampiamente possibile, è quanto l’autore riporta a riguardo della figura storica del presidente Reagan e i sinistri parallelismi che mi sono venuti in mente con le recentissime vicende politiche italiane. Dando per assodato che grazie a meccanismi ormai noti (e aggiungerei particolarmente palesi soprattutto in tempi di crisi economiche e governi tecnici) il potere privato impone rigide limitazioni alle azioni dei governi, Noam ritiene a proposito che gli Stati Uniti rappresentino un caso eccezionale in cui è salvaguardata quasi completamente la libertà dalla coercizione statale, ma la vita politica rasenta la più assoluta povertà. «Esiste sostanzialmente un unico partito, quello degli affari diviso in due fazioni [….] il sistema ideologico è limitato dalla virtuale unanimità dei privilegiati e le elezioni sono ampiamente un vuoto rituale [….] peraltro metà della popolazione non si reca nemmeno alle urne, e l’altra metà che si disturba a farlo vota spesso consapevolmente contro i propri interessi». Queste tendenze hanno subito, secondo la ricostruzione di Noam, una brusca accelerazione durante la presidenza Reagan (1981-1989). Infatti, contrariamente a quanto possiamo immaginare, la popolarità del presidente conservatore «non è mai stata particolarmente elevata; anzi, gran parte della popolazione sembrava sapere che il presidente era una creazione mediatica, dalle idee piuttosto annebbiate sulla politica governativa». Al di la dell’idea che ci sia un unico partito degli affari, cosa che mi pare ormai lapalissiana nella convergenza pd e pdl sul governo dei tecnici, la prima sinapsi personale riguarda, a mio avviso, una notevole somiglianza tra la descrizione chomskyana di Reagan e quanto potremmo dire noi di Berlusconi. Sul «prodotto mediatico» credo che saremo più o meno tutti d’accordo. Leggendo poi i passaggi sulla popolarità che «non è mai stata particolarmente elevata», un po’ sorridendo, pensavo a quante volte in questi anni mi interrogavo perplesso su quanto fosse difficile conoscere, nella vita quotidiana, gente disposta ad ammettere pubblicamente e orgogliosamente di aver votato per Silvio convinta, perché gli piaceva profondamente. Proseguendo la lettura del saggio troviamo scritto, sempre riferito a Reagan, che «oggi lo si ammette pubblicamente; il “grande comunicatore” è scomparso nell’oblio totale nel momento esatto in cui non c’era più bisogno di lui affinché leggesse, come aveva fatto in quasi tutta la sua vita, i testi che gli scriveva la gente danarosa. Dopo otto anni di finzione sulla “rivoluzione” attuata da Reagan, nessuno si sogna di chiedere al suo vessillifero cosa pensa su qualsivoglia argomento, dal momento che si sa [….] che non sa cosa pensare». Qui, visto la natura inquietante del parallelismo a mio avviso sostenibile, il sorriso mi è completamente scomparso. Ciò a cui alludo sono le dimissioni di Berlusconi e l’apparizione di Monti. Al di la delle imbarazzanti barzellette e degli scandali sessuali, negli anni non sono riusciti a far scricchiolare minimamente “la rivoluzione liberale” di Berlusconi nemmeno i movimenti sociali che pur ci sono stati. Basti pensare all’opposizione di massa fatta dal mondo della scuola alla riforma Gelmini o alla grande vittoria ai referendum di giugno. Poi il copione di sempre: cortei, scioperi della fiom, occupazioni, no-b day vari e così via, tutto vano. A far cadere Berlusconi, «nel momento esatto in cui non c’era più bisogno di lui», è stato lo spread. Ora ci governano dei personaggi non eletti da nessuno, il loro capo è un advaisor della Goldman Sachs. Bella vittoria, certo! Ma non dei governati, ma del Governo dei governi. Continua Chomsky riguardo alla presidenza Reagan: «per tutti gli anni Ottanta gli Usa hanno funzionato senza un capo esecutivo. Si è trattato di un grande passo in avanti verso l’emarginazione popolare. Era come se si tenessero elezioni ogni tanto per scegliere un re che esegue compiti rituali». Poi il gran finale: «in quanto democrazia capitalista più avanzata e sofisticata, gli Stati Uniti hanno spesso inaugurato l’invenzione dei mezzi per controllare il nemico interno, e senza dubbio l’ultima ispirazione sarà emulata altrove, con il consueto ritardo». Caro Noam, ci avevi visto giusto e visto lungo, il nostro ritardo rispetto al modello Usa è di ventitre anni. Cazzo, la mia età!
Rifiuto