Aprite le gabbie: a ricostruire ciò che il terremoto ha distrutto!

“Mi ricorda qualcosa, però non so cosa”. Questo è il titolo con cui mi hanno linkato la proposta della Severino: far partecipare i detenuti non pericolosi alla ricostruzione. Geniale. I lavori forzati. Una proposta che solo la ministra della Giustizia poteva avanzare, una proposta talmente grossa che deve essere limata: i detenuti a cui sarebbe offerto questo ruolo da protagonista sarebbero solo quelli non pericolosi, magari già in regime di semilibertà, e poi il lavoro – soprattutto se socialmente utile – non può che favorire il rientro, re-integro, in una società (del lavoro). Il disegno vuole carcerati produttivi in un momento dove la disoccupazione avanza e con essa anche le tensioni sociali che, unite alla demonizzazione del conflitto sociale – e la repressione dello Stato in Val di Susa ben lo dimostra –, potrebbero delineare la figura del disoccupato con le caratteristiche di agitatore e pericoloso parassita sociale, terreno fecondo per la lotta politica. Carcerato e disoccupato mai così vicini. Nel Capitale strutturato sul lavoro, la crisi del Capitale sancisce l’indispensabilità del lavoro. Così l’improduttivo deve comunque lavorare e in questo spostamento suona uno sferragliare di catene e l’agghindamento a premio. Il carcerato che in una società del lavoro è privato innanzitutto del lavoro, poiché questo è considerato la base stessa della società e forse anche del vincolo sociale, ora è invitato a prendere in mano gli arnesi e ricostruire ciò che il terremoto ha demolito. Gli appalti e il denaro già sono in circolo come l’altra faccia di ogni ri-costruzione, così come la militarizzazione delle aree colpite dal sisma sicuramente sta già dando i suoi frutti, bene: in questo territorio trinceato e murato, controllato da fucili e telecamere, si può aprire la cella per il trasferimento dell’operaio specializzato, quello che già è abituato a questo ambiente: il carcerato. Una proposta allettante (forse), un trasferimento senza traumi, il massimo della resa con il minimo di controllo (perché quello già è presente), lavoro utile per una ricostruzione dove anche il reietto gioca il ruolo del protagonista. Perché si può obbiettare che, all’uscita dalla cella, l’ex prigioniero non trovi lavoro, sia un soggetto debole e discriminato, e necessiti un rapido re-integro nella società – così dipinta la proposta della Severino potrebbe passare per valida. Però non convince… Però…non sai cosa ti ricorda? Boh, a me tante cose, dalle navi galere ai lavori forzati nei fascismi. Ma questo è nuovo, e porta con sé implicazioni che hanno nel passato solide radici, radici mitiche. La riflessione sul carcerato tocca immediatamente il tema del “nemico interno”, il tema del lavoro tocca invece i fondamenti stessi della odierna società. La riflessione su questi due temi indica un cambio, uno spostamento, nell’intera struttura sociale poiché insieme delimitano la comunità sociale e la definiscono, includendo ed escludendo soggetti, dichiarando amici e nemici, utili e inutili, sani e appestati – lavoratori e disoccupati nel paradigma contemporaneo. Si delinea un presente in cui il carcere, il lavoro e tutta la società stanno rapidamente cambiando, spinti dallo spauracchio della crisi, dalla tecnocrazia europea e da un capitalismo sempre più totalitario; e questa stessa spinta permette un circolare incremento dei vettori che definiscono la spinta stessa.
Elsa Valbrusa

Darsi fuoco

Ultimamente si sente molto parlare di suicidio in tempi di crisi. A giudicare dalle notizie, sembra che la crisi stia portando all’esasperazione diverse vite, arrivando al suicidio attraverso svariati metodi (impiccagione, inalazione di gas, colpi d’arma da fuoco, cadute nel vuoto o tra i binari, combustione, eccetera). Un quadro tanto chiaro e condivisibile quanto normalizzante e salvifico per noi rimasti in vita. I suicidi non sono in tempi di crisi ma in tempi di capitalismo, come l’arrivare a fine mese non è una difficoltà che accade in tempi di depressione economica ma una sfida che ha l’età del salario. Le morti forse più riconducibili ai cicli di crisi sono quelle degli imprenditori suicidi, per i quali -essendo già una categoria e quindi avendo già un certo spettro di possibilità- si è vista formare un’associazione dei famigliari delle vittime. Cosa che invece sembra essere più complicata per quei disoccupati suicidi e per quelle vite spossate ed esasperate innominabili se non una ad una. Ma non è tanto questa la distinzione che deve qui emergere, quanto quella delle modalità di suicidio. È chiaro: i metodi scelti per morire non sono per nulla casuali e determinano una precisa esasperazione. Ogni suicidio non è UN suicidio ma IL suicidio, tant’è vero che morire appeso al cappio non è la stessa cosa che morire di combustione. Il primo lo si farà mai in piazza? Il secondo lo si farà mai in cantina da soli? Il suicidio non è dunque una sorta di atto generico che può accadere arbitrariamente su qualsiasi corpo. Non è il semplice e intercambiabile spegnersi di una vita in un contesto di dettagli secondari. Esso consiste sempre di precisi elementi sulla scena che obbligano a considerare ognuno di questi gesti come una figura completa e insintetizzabile. Quache settimana fa un uomo s’è dato fuoco davanti alla Gran Guardia a Verona. Quasi due mesi fa uno a Bologna, che morì dopo 9 giorni in ospedale. Il darsi fuoco non è un generico suicidio “per” qualcosa (disoccupazione, indebitamento, depressione, ecc.) ma una figura completa che concerne il luogo pubblico, i tempi di combustione, di soccorso e più in generale il lamento che nasce dall’oppressione. [Il cappio ha più a che vedere con un luogo solitario, una muta scomparsa, un lamento soffocato già prima che s’anneghi il respiro]. Il suicidio per combustione è accostabile forse allo sciopero della fame, nella misura in cui sviluppano entrambi un tempo di consumo della vita -combustione e digiuno appunto. La morte ne sarà dunque un effetto, ma non prima di una precisa successione temporale durante la quale può ancora accadere di tutto. Ne viene che prima di essere un suicidio, il darsi fuoco è un lamento drammatico. O in altri termini il darsi fuoco è un suicidio solo nella misura in cui la stessa rivolta è un suicidio. Non si tratta dunque di estrapolare il generico gesto di togliersi la vita per spiegare il contesto attraverso passaggi di causalità logica. Di questo se ne occupano già i media – solitamente molto male ma non possono fare altrimenti. Si tratta piuttosto di riflettere su come s’è ridotta l’insurrezione e la resistenza allo sfruttamento e all’oppressione. Riflettere su cosa ne è del conflitto e del confronto tra oppressi – o cittadini. In altre parole, se da un lato le fiamme bruciano una disperazione, dall’altra si rivelano esse stesse come metodo di lotta. L’ultimo, in tempi di martellante individualismo e in luoghi di ferree comunità prestabilite. Perché forse il calore di certe fiamme, distribuito su più vite, riscalderebbe intere terre. Ma concentrato su un solo corpo non può che consumarlo brutalmente, dissipando l’energia dirompente che le scatena in una solitaria e marginale lotta alla sopravvivenza.

I. Hei mamma, qualcosa brucia laggiù

Il ciclico ritmo a cui siamo abituati ci prepara a un maggio di fuoco: lo sciogliersi degli invernali ghiacci cerebrali e politici rivelerà un manto urbano in cui sbocciano le fiammate di rabbia. Quest’anno però le fiamme sono arrivate in anticipo. Non il fuoco estetico-militante del post-manifestazione, non le camionette degli anti-sommossa e la fumata nera dei cassonetti, non il vicino fuoco greco le cui lingue toccano l’Europa mediterranea. Questi sono fuochi perenni. Invece di queste fiamme di furore e rabbia, spesso teatralizzate all’inverosimile e dibattute fino al loro spegnimento totale in una complessa e soffocante sterile analisi, le fiammelle fresche, un po’ in anticipo sulla stagione, ardono ben altro. Fenomeni di autocombustione di corpi senza lavoro, ad esempio. È nel silenzio umano della piazza-mercato, commercio e non democrazia, che il rumoroso gesto di chi è privo di voce rimane muto nonostante il fracasso provocato. Il nascente causa-effetto del momento, il crisi-suicidio, mancanza di lavoro-suicidio, chiusura impresa-suicidio, si tinge delle tonalità del fuoco sulla carne dei lavoratori. Il suicidio, intimità di un gesto non propriamente intimo, spesso ultimo e disperato grido affermante l’esistere di un’esistenza condannata alla non-esistenza, incontra qui il palco dell’esposizione teatrale, il mercato dell’estetica, la piazza del commercio, e deraglia da un binario apparentemente obbligato. È il suicidio con il fuoco, ma non quello che chiama flash e applausi, sbirri e pietre, giornalisti e pagine di storia, urla e “io c’ero quel giorno, là nella piazza”. Così teatrale eppure così intimo e silenzioso, respinto e dimenticato, inascoltabile. Nel silenzio della steppa relazionale, il fuoco arde e nessuno se lo caga. Queste fiamme non catturano lo sguardo; esse gridano al fuoco stesso, unico elemento che le ascolta. Fuoco, corpo, piazza. Eppure non si produce l’icona delle fiamme suicide nonostante ci siano gli elementi. Questo fuoco non vende. Manca qualche cosa? L’idea di libertà, gli ideali, una causa per cui immolarsi? Fuoco, corpo, piazza; eppure oblio e non Storia. Forse non è una mancanza ma un’eccedenza a frantumare la possibilità dell’icona. Questo fuoco è troppo. Troppo muto e disperato, troppo lontano e terrificante, troppo semplice e incomprensibile, troppo ingenuo e potente. Ha il troppo da dire di chi non vuole dire nulla perché non ha più nulla da dire, o di chi vuole dire tutto e al mondo intero, e ne esce un grido inascoltabile e indecifrabile. Qualcosa salta in questa comunicazione sopratutto per chi cerca una comunicazione lineare in ogni situazione. Non è un grido d’aiuto. Suona differente e non domanda una risposta. É il grido muto dello spegnersi di un corpo nel divampare delle fiamme. Questo, come molti altri, è un grido inascoltabile. È impossibile prenderne una ben calibrata distanza, soppesarne le ragioni, sentirsi partecipi o allontanarsene. È troppo vicino e troppo lontano; è un fuoco che arde a pochi metri dal passeggiare tranquillo, e nello stesso tempo chilometri di ghiaccio si frappongono. Le lingue di fuoco che svettano nel cielo schivano le gabbie rigide delle categorie e si abbracciano oltre le sbarre dei contesti e delle storie e vite, singole e collettive, logorando le catene causa-effetto. Corpi in fiamme che rimandano ad altri corpi in fiamme, ad altri corpi e ad altre fiamme. E poi piazze, patiboli e ancora roghi. Storie,vite, epoche. Non sono gli stessi fuochi? Eppure le fiamme sono uguali. Corpi e fiamme si sovrappongono nonostante tutto. Corpi diversi, volti diversi, fiamme diverse, cause -se sono rintracciabili cause in quanto tali- diverse. Cosa rimane? Il fuoco, il resto è già cenere. Corpi in fiamme si consumano lentamente. Il loro grido è indecifrabile. La luce dei riflettori non li illumina neppure se è puntata. Per quello che non sarà Storia o Arte, e dunque reso un omogeneizzato accuratamente sterilizzato, è pronto il più rassicurante oblio. Una sbadilata di terra sulle fiamme.

II. Essere inchiodati alla sventura come destino

È come se, con il ricorso al fuoco, l’atto del suicidio riprendesse possesso della propria etimologia, rispecchiando alla lettera il caedere sui, quell’atto di tagliare fino all’incisione della carne – tanto la propria quanto quella del corpo altrui, fino al cuore del metaforico corpo sociale. Del resto, se nel gesto del suicidio permane ancora un che di impensabile, ciò è dovuto alla radicalità con cui questo recide ogni legame con… con cosa? Prima ancora – o se si vuole: più radicalmente – che con quel corpo sociale che teme il suicidio come l’incisione di una condanna, questo gesto recide da chi lo compie qualcosa come un destino, una sventura cucita, mescolata, confusa, inchiodata al corpo che deve patire. Come se il ricorso al fuoco non fosse altro che il segnalatore di una sventura abissale, senza alcuna via d’uscita – di una sventura gravosa a tal punto da mischiarsi, da confondersi, in altre parole: da legarsi ai corpi alla stregua di un destino. È contro un tale destino, e con esso contro quei corpi che sembrano così inchiodati all’ineluttabile, che le fiamme divampano inesorabili: esse rigettano un tale destino, dunque, ma solo al prezzo di gettare nel fuoco il corpo che da esso è stato ridotto a mero supporto. Come se (ma non possiamo fare altro che ribadire, ripetere, reiterare all’infinito questo “come se”, indicatore a sua volta di una nostra impossibilità, e della separazione sfuggente che non smettiamo di abitare) il corpo fosse stato promesso a un’estrema redenzione, nell’atto stesso di scorporarsi da quel destino di sventura e illuminare la notte consumandosi con il fuoco. La Città come la Strada, o come questi corpi, innumerevoli e al contempo singolari, senza dimenticare questo proprio Corpo, pesante del peso di un’imposizione tanto tirannica quanto sfuggente, impalpabile, sono chiamati nell’atto rivoltante a dis-integrarsi, a separarsi dal destino loro imposto. Tuttavia, è solo tramite la loro dissoluzione che sembra possibile aprire all’impossibile, in altre parole negare la realizzazione di ciò che sembra imporsi con l’evidenza dell’inesorabile. Finché i dispositivi di potere si limitano a colonizzare, parassitare, vampirizzare tanto il Corpo quanto la Strada, la Città, o le singolarità, a questi è ancora concessa tutta l’alea del movimento e dello scontro, tutta la libertà che scaturisce dalla lotta e dalla collisione. È solo quando il dispositivo si impone quale unico fondamento immanente tanto di questi corpo che io abito quanto di questa soggettività a cui cerco di corrispondere, solo allora la fuga dal destino imposto si tinge di notte, solo allora la disperazione chiama la fiamma quale ultima, sfolgorante chance di visibilità.

Emotività randomiche. In breve.

Domenica 20 Maggio. Ora abbiamo l’identikit del bombarolo: “Circa 50-55 anni, con una giacca scura, pantaloni chiari e scarpe da ginnastica”. Da qui l’ipotesi più plausibile sarebbe il “gesto isolato”. Un uomo, un gesto, un gesto isolato. Non fa una piega: se A è uguale a B, B è uguale ad A. Ieri sera Mentana ha paventato anche l’ipotesi che possa essere stato fondamentalismo religioso. Mafia. Eccetera. Non mi ricordo che ore fossero, ma mi sono svegliata sentendo la voce di mio padre che diceva a mia madre: “Due bombe a Brindisi”.Un flash in testa mi ha detto: “Deja-vu, ancora Stragi“. Poi non ho pensato più a niente. Nella sospensione surreale ho sentito una forte accelerazione della storia in questi ultimi due giorni: la bomba, il terremoto, i grandi eventi, l’egocentrismo dei grandi eventi che si sovrappongono, si coprono l‘uno con l‘altro. Rumore sordo, rimbombo, ronzio, sibilo. Grande Puffo consiglia: tenere l’orecchio più teso, percepire il ronzio e il richiamo discreto del fischio più che il fastidioso rumore dello scoppio. Bòmbos. Bum!
Susanna Fucci

La mercificazione della macelleria mediatica

L’attentato di Brindisi è stata l’ennesima occasione per la stampa di mettere in moto là sua macelleria mediatica. C’è modo e modo di fare informazione e Mediaset si conferma regina per dare allo spettatore immagini che hanno un retrogusto di collezionismo morboso che sfiora il feticismo. Le fotografie di Melissa a tre anni o addirittura il video della sua prima comunione, condite dall’immancabile voce della giornalista di StudioAperto in grado solo di fare servizi tutti uguali conditi da immancabili cliché e frasi fatte, beh direi che forse è il caso di rivedere la professionalità di questi personaggi che si etichettano giornalisti e magari cacciarli dall’Ordine. Onestamente di un servizio del genere ne avrei fatto a meno. Mercificare sulla vita spezzata di una ragazza di 16 anni è solo l’ultimo caso del meccanismo bel oliato che Mediaset, ma anche altri, chiamano giornalismo. A me sembra più uno spettacolo trash che ben si integra nella macchina della Società dello Spettacolo debordiana e in quanto tale la soluzione non è il boicottaggio bensì l’annientamento di tale sistema disgustoso.
Matte

Le ultime dal portale

Qui in Spagna mi han chiesto dell’attentato. E mi è sembrata così strana quella parola. Davvero strana. Attentato. L’ho sentita in altri contesti che pure qui sono stati invocati per qualche istante: terrorismo estremista, pista anarchica, stragismo. Strage. Strategia della tensione. Quest’ultima mi fa più paura, forse perché la tensione non è una bomba che esplode, un istante di fuoco, è una scottatura continua, un capo sempre abbassato, e non solo per evitare le schegge. — Oh, è esplosa una bomba e ha ammazzato una ragazza di sedici anni. A brindisi. E non so quanti feriti. E tutti i politici e i vescovi e i capetti a fare il carosello; dicono: “chiaro colpo allo Stato”. E dove vedono lo Stato?, nei pezzi del corpo esplosi in aria o nel sangue della ragazzina e dei feriti? — In quali arzille testoline s’è creato il collegamento bombaIstitutoFemminile – colpoAlloStato?? I media italiani hanno i faretti puntati laggiù, le testate straniere ci dedicano almeno mezza paginetta, il portale di una testata locale risulta essere saturo di richieste e si blocca ad una pagina statica con due video dell’arrivo delle ambulanze e il link a facebook per rimanere aggiornati. Entrare in facebook è come sedersi su un baobab gremito di volatili: un cinquettio assordante. — A Bologna ho letto che alla fine del corteo improvvisato domenica sera s’è creato un momento di scambio in cui alcune persone hanno sfogato le proprie disperazioni. Disperazioni che concernevano problemi personali, legati al lavoro, al futuro, alla precarietà. Alcune lacrime. E nessuno che obiettava il fatto che si erano ritrovati per tutt’altro, per i fatti di Brindisi, per la legalità. Il fatto è che una tensione esiste, ma di tutt’altra specie. — Ogni ora cambia qualcosa nella corsa alla novità dell’esplosione: il video nuovo, la pista nuova, il testimone, l’indagato, il gruppo, il singolo. E si pensa alla mafia, agli anni ’70, alla follia. E ogni politico dice la sua parolina d’ordine: vergogna, nazisti, uniti, attacco. E ogni parola d’ordine chiama all’ordine. E la gente piange disordinatamente. E l’ordine, costruito e costruitosi sempre e incessantemente su sangue e corpi, fagociterà questo sangue e questi corpi, troverà la tensione adatta al nuovo equilibrio e sposserà nuovamente le esistenze.