II. Essere inchiodati alla sventura come destino

È come se, con il ricorso al fuoco, l’atto del suicidio riprendesse possesso della propria etimologia, rispecchiando alla lettera il caedere sui, quell’atto di tagliare fino all’incisione della carne – tanto la propria quanto quella del corpo altrui, fino al cuore del metaforico corpo sociale. Del resto, se nel gesto del suicidio permane ancora un che di impensabile, ciò è dovuto alla radicalità con cui questo recide ogni legame con… con cosa? Prima ancora – o se si vuole: più radicalmente – che con quel corpo sociale che teme il suicidio come l’incisione di una condanna, questo gesto recide da chi lo compie qualcosa come un destino, una sventura cucita, mescolata, confusa, inchiodata al corpo che deve patire. Come se il ricorso al fuoco non fosse altro che il segnalatore di una sventura abissale, senza alcuna via d’uscita – di una sventura gravosa a tal punto da mischiarsi, da confondersi, in altre parole: da legarsi ai corpi alla stregua di un destino. È contro un tale destino, e con esso contro quei corpi che sembrano così inchiodati all’ineluttabile, che le fiamme divampano inesorabili: esse rigettano un tale destino, dunque, ma solo al prezzo di gettare nel fuoco il corpo che da esso è stato ridotto a mero supporto. Come se (ma non possiamo fare altro che ribadire, ripetere, reiterare all’infinito questo “come se”, indicatore a sua volta di una nostra impossibilità, e della separazione sfuggente che non smettiamo di abitare) il corpo fosse stato promesso a un’estrema redenzione, nell’atto stesso di scorporarsi da quel destino di sventura e illuminare la notte consumandosi con il fuoco. La Città come la Strada, o come questi corpi, innumerevoli e al contempo singolari, senza dimenticare questo proprio Corpo, pesante del peso di un’imposizione tanto tirannica quanto sfuggente, impalpabile, sono chiamati nell’atto rivoltante a dis-integrarsi, a separarsi dal destino loro imposto. Tuttavia, è solo tramite la loro dissoluzione che sembra possibile aprire all’impossibile, in altre parole negare la realizzazione di ciò che sembra imporsi con l’evidenza dell’inesorabile. Finché i dispositivi di potere si limitano a colonizzare, parassitare, vampirizzare tanto il Corpo quanto la Strada, la Città, o le singolarità, a questi è ancora concessa tutta l’alea del movimento e dello scontro, tutta la libertà che scaturisce dalla lotta e dalla collisione. È solo quando il dispositivo si impone quale unico fondamento immanente tanto di questi corpo che io abito quanto di questa soggettività a cui cerco di corrispondere, solo allora la fuga dal destino imposto si tinge di notte, solo allora la disperazione chiama la fiamma quale ultima, sfolgorante chance di visibilità.