Darsi fuoco

Ultimamente si sente molto parlare di suicidio in tempi di crisi. A giudicare dalle notizie, sembra che la crisi stia portando all’esasperazione diverse vite, arrivando al suicidio attraverso svariati metodi (impiccagione, inalazione di gas, colpi d’arma da fuoco, cadute nel vuoto o tra i binari, combustione, eccetera). Un quadro tanto chiaro e condivisibile quanto normalizzante e salvifico per noi rimasti in vita. I suicidi non sono in tempi di crisi ma in tempi di capitalismo, come l’arrivare a fine mese non è una difficoltà che accade in tempi di depressione economica ma una sfida che ha l’età del salario. Le morti forse più riconducibili ai cicli di crisi sono quelle degli imprenditori suicidi, per i quali -essendo già una categoria e quindi avendo già un certo spettro di possibilità- si è vista formare un’associazione dei famigliari delle vittime. Cosa che invece sembra essere più complicata per quei disoccupati suicidi e per quelle vite spossate ed esasperate innominabili se non una ad una. Ma non è tanto questa la distinzione che deve qui emergere, quanto quella delle modalità di suicidio. È chiaro: i metodi scelti per morire non sono per nulla casuali e determinano una precisa esasperazione. Ogni suicidio non è UN suicidio ma IL suicidio, tant’è vero che morire appeso al cappio non è la stessa cosa che morire di combustione. Il primo lo si farà mai in piazza? Il secondo lo si farà mai in cantina da soli? Il suicidio non è dunque una sorta di atto generico che può accadere arbitrariamente su qualsiasi corpo. Non è il semplice e intercambiabile spegnersi di una vita in un contesto di dettagli secondari. Esso consiste sempre di precisi elementi sulla scena che obbligano a considerare ognuno di questi gesti come una figura completa e insintetizzabile. Quache settimana fa un uomo s’è dato fuoco davanti alla Gran Guardia a Verona. Quasi due mesi fa uno a Bologna, che morì dopo 9 giorni in ospedale. Il darsi fuoco non è un generico suicidio “per” qualcosa (disoccupazione, indebitamento, depressione, ecc.) ma una figura completa che concerne il luogo pubblico, i tempi di combustione, di soccorso e più in generale il lamento che nasce dall’oppressione. [Il cappio ha più a che vedere con un luogo solitario, una muta scomparsa, un lamento soffocato già prima che s’anneghi il respiro]. Il suicidio per combustione è accostabile forse allo sciopero della fame, nella misura in cui sviluppano entrambi un tempo di consumo della vita -combustione e digiuno appunto. La morte ne sarà dunque un effetto, ma non prima di una precisa successione temporale durante la quale può ancora accadere di tutto. Ne viene che prima di essere un suicidio, il darsi fuoco è un lamento drammatico. O in altri termini il darsi fuoco è un suicidio solo nella misura in cui la stessa rivolta è un suicidio. Non si tratta dunque di estrapolare il generico gesto di togliersi la vita per spiegare il contesto attraverso passaggi di causalità logica. Di questo se ne occupano già i media – solitamente molto male ma non possono fare altrimenti. Si tratta piuttosto di riflettere su come s’è ridotta l’insurrezione e la resistenza allo sfruttamento e all’oppressione. Riflettere su cosa ne è del conflitto e del confronto tra oppressi – o cittadini. In altre parole, se da un lato le fiamme bruciano una disperazione, dall’altra si rivelano esse stesse come metodo di lotta. L’ultimo, in tempi di martellante individualismo e in luoghi di ferree comunità prestabilite. Perché forse il calore di certe fiamme, distribuito su più vite, riscalderebbe intere terre. Ma concentrato su un solo corpo non può che consumarlo brutalmente, dissipando l’energia dirompente che le scatena in una solitaria e marginale lotta alla sopravvivenza.

I. Hei mamma, qualcosa brucia laggiù

Il ciclico ritmo a cui siamo abituati ci prepara a un maggio di fuoco: lo sciogliersi degli invernali ghiacci cerebrali e politici rivelerà un manto urbano in cui sbocciano le fiammate di rabbia. Quest’anno però le fiamme sono arrivate in anticipo. Non il fuoco estetico-militante del post-manifestazione, non le camionette degli anti-sommossa e la fumata nera dei cassonetti, non il vicino fuoco greco le cui lingue toccano l’Europa mediterranea. Questi sono fuochi perenni. Invece di queste fiamme di furore e rabbia, spesso teatralizzate all’inverosimile e dibattute fino al loro spegnimento totale in una complessa e soffocante sterile analisi, le fiammelle fresche, un po’ in anticipo sulla stagione, ardono ben altro. Fenomeni di autocombustione di corpi senza lavoro, ad esempio. È nel silenzio umano della piazza-mercato, commercio e non democrazia, che il rumoroso gesto di chi è privo di voce rimane muto nonostante il fracasso provocato. Il nascente causa-effetto del momento, il crisi-suicidio, mancanza di lavoro-suicidio, chiusura impresa-suicidio, si tinge delle tonalità del fuoco sulla carne dei lavoratori. Il suicidio, intimità di un gesto non propriamente intimo, spesso ultimo e disperato grido affermante l’esistere di un’esistenza condannata alla non-esistenza, incontra qui il palco dell’esposizione teatrale, il mercato dell’estetica, la piazza del commercio, e deraglia da un binario apparentemente obbligato. È il suicidio con il fuoco, ma non quello che chiama flash e applausi, sbirri e pietre, giornalisti e pagine di storia, urla e “io c’ero quel giorno, là nella piazza”. Così teatrale eppure così intimo e silenzioso, respinto e dimenticato, inascoltabile. Nel silenzio della steppa relazionale, il fuoco arde e nessuno se lo caga. Queste fiamme non catturano lo sguardo; esse gridano al fuoco stesso, unico elemento che le ascolta. Fuoco, corpo, piazza. Eppure non si produce l’icona delle fiamme suicide nonostante ci siano gli elementi. Questo fuoco non vende. Manca qualche cosa? L’idea di libertà, gli ideali, una causa per cui immolarsi? Fuoco, corpo, piazza; eppure oblio e non Storia. Forse non è una mancanza ma un’eccedenza a frantumare la possibilità dell’icona. Questo fuoco è troppo. Troppo muto e disperato, troppo lontano e terrificante, troppo semplice e incomprensibile, troppo ingenuo e potente. Ha il troppo da dire di chi non vuole dire nulla perché non ha più nulla da dire, o di chi vuole dire tutto e al mondo intero, e ne esce un grido inascoltabile e indecifrabile. Qualcosa salta in questa comunicazione sopratutto per chi cerca una comunicazione lineare in ogni situazione. Non è un grido d’aiuto. Suona differente e non domanda una risposta. É il grido muto dello spegnersi di un corpo nel divampare delle fiamme. Questo, come molti altri, è un grido inascoltabile. È impossibile prenderne una ben calibrata distanza, soppesarne le ragioni, sentirsi partecipi o allontanarsene. È troppo vicino e troppo lontano; è un fuoco che arde a pochi metri dal passeggiare tranquillo, e nello stesso tempo chilometri di ghiaccio si frappongono. Le lingue di fuoco che svettano nel cielo schivano le gabbie rigide delle categorie e si abbracciano oltre le sbarre dei contesti e delle storie e vite, singole e collettive, logorando le catene causa-effetto. Corpi in fiamme che rimandano ad altri corpi in fiamme, ad altri corpi e ad altre fiamme. E poi piazze, patiboli e ancora roghi. Storie,vite, epoche. Non sono gli stessi fuochi? Eppure le fiamme sono uguali. Corpi e fiamme si sovrappongono nonostante tutto. Corpi diversi, volti diversi, fiamme diverse, cause -se sono rintracciabili cause in quanto tali- diverse. Cosa rimane? Il fuoco, il resto è già cenere. Corpi in fiamme si consumano lentamente. Il loro grido è indecifrabile. La luce dei riflettori non li illumina neppure se è puntata. Per quello che non sarà Storia o Arte, e dunque reso un omogeneizzato accuratamente sterilizzato, è pronto il più rassicurante oblio. Una sbadilata di terra sulle fiamme.

II. Essere inchiodati alla sventura come destino

È come se, con il ricorso al fuoco, l’atto del suicidio riprendesse possesso della propria etimologia, rispecchiando alla lettera il caedere sui, quell’atto di tagliare fino all’incisione della carne – tanto la propria quanto quella del corpo altrui, fino al cuore del metaforico corpo sociale. Del resto, se nel gesto del suicidio permane ancora un che di impensabile, ciò è dovuto alla radicalità con cui questo recide ogni legame con… con cosa? Prima ancora – o se si vuole: più radicalmente – che con quel corpo sociale che teme il suicidio come l’incisione di una condanna, questo gesto recide da chi lo compie qualcosa come un destino, una sventura cucita, mescolata, confusa, inchiodata al corpo che deve patire. Come se il ricorso al fuoco non fosse altro che il segnalatore di una sventura abissale, senza alcuna via d’uscita – di una sventura gravosa a tal punto da mischiarsi, da confondersi, in altre parole: da legarsi ai corpi alla stregua di un destino. È contro un tale destino, e con esso contro quei corpi che sembrano così inchiodati all’ineluttabile, che le fiamme divampano inesorabili: esse rigettano un tale destino, dunque, ma solo al prezzo di gettare nel fuoco il corpo che da esso è stato ridotto a mero supporto. Come se (ma non possiamo fare altro che ribadire, ripetere, reiterare all’infinito questo “come se”, indicatore a sua volta di una nostra impossibilità, e della separazione sfuggente che non smettiamo di abitare) il corpo fosse stato promesso a un’estrema redenzione, nell’atto stesso di scorporarsi da quel destino di sventura e illuminare la notte consumandosi con il fuoco. La Città come la Strada, o come questi corpi, innumerevoli e al contempo singolari, senza dimenticare questo proprio Corpo, pesante del peso di un’imposizione tanto tirannica quanto sfuggente, impalpabile, sono chiamati nell’atto rivoltante a dis-integrarsi, a separarsi dal destino loro imposto. Tuttavia, è solo tramite la loro dissoluzione che sembra possibile aprire all’impossibile, in altre parole negare la realizzazione di ciò che sembra imporsi con l’evidenza dell’inesorabile. Finché i dispositivi di potere si limitano a colonizzare, parassitare, vampirizzare tanto il Corpo quanto la Strada, la Città, o le singolarità, a questi è ancora concessa tutta l’alea del movimento e dello scontro, tutta la libertà che scaturisce dalla lotta e dalla collisione. È solo quando il dispositivo si impone quale unico fondamento immanente tanto di questi corpo che io abito quanto di questa soggettività a cui cerco di corrispondere, solo allora la fuga dal destino imposto si tinge di notte, solo allora la disperazione chiama la fiamma quale ultima, sfolgorante chance di visibilità.

Emotività randomiche. In breve.

Domenica 20 Maggio. Ora abbiamo l’identikit del bombarolo: “Circa 50-55 anni, con una giacca scura, pantaloni chiari e scarpe da ginnastica”. Da qui l’ipotesi più plausibile sarebbe il “gesto isolato”. Un uomo, un gesto, un gesto isolato. Non fa una piega: se A è uguale a B, B è uguale ad A. Ieri sera Mentana ha paventato anche l’ipotesi che possa essere stato fondamentalismo religioso. Mafia. Eccetera. Non mi ricordo che ore fossero, ma mi sono svegliata sentendo la voce di mio padre che diceva a mia madre: “Due bombe a Brindisi”.Un flash in testa mi ha detto: “Deja-vu, ancora Stragi“. Poi non ho pensato più a niente. Nella sospensione surreale ho sentito una forte accelerazione della storia in questi ultimi due giorni: la bomba, il terremoto, i grandi eventi, l’egocentrismo dei grandi eventi che si sovrappongono, si coprono l‘uno con l‘altro. Rumore sordo, rimbombo, ronzio, sibilo. Grande Puffo consiglia: tenere l’orecchio più teso, percepire il ronzio e il richiamo discreto del fischio più che il fastidioso rumore dello scoppio. Bòmbos. Bum!
Susanna Fucci

Una notte a Torino

Notturno. Il passeggio tra lampioni ed ostacoli: marciapiedi, cestini, impalcature. Eravamo in cinque alle tre e mezza del mattino. Tornando verso la nostra casa. Stavamo, percorsi dalle conversazioni, divisi in due piccoli gruppi: davanti in tre e dietro in due. C’erano anche due amici che non abitano qui, ma ospiti da noi quella notte. La via che arriva fino all’enorme portone scuro è un rettilineo percorso da tram e dal vento, che da un fiume arriva all’altro. C’erano delle persone all’altro estremo della via: un gruppo di ragazzi, rumorosi, ma non ricordo altro. Come un mucchio di figure nere transita accanto, così stavano loro. Dicono che ci superarono, ed io non ricordo, fino al punto in cui le urla mi fermarono, insieme al mio passeggero, la persona che con me percorreva la strada, dietro, un pò lontano, dal terzetto più avanti. Ci siamo girati ed il mucchio è diventato una raffica di pugni. Non ricordo il momento, ma la testa ha cominciato a bruciare e mi sono chinato. Poi delle persone nervose mi hanno pregato di sdraiarmi, bagnandomi il volto. Poi stringevo una mano e mi preoccupavo di far capire che ero lucido. Il mio compagno aveva il ghiaccio al labbro, ed anche uno di quelli che stavano avanti, tornato in soccorso, è stato colpito al collo, alla gamba e poco sopra l’occhio. Il mucchio s’era allontanato, senza troppa fretta. Un pezzo di cintura, dove si stringono i pantaloni, era rimasto accanto a noi.
Rughe

Un insetto

Un gesto. 
(C. Pavese)
I Me ne stavo con i pensieri molli in testa – le gambe buttate in mezzo alla pista – il culo sul bordo della panchina a beccarmi il sole in faccia – sul corpo lungo e rilassato, tenuto su dalle braccia a croce sullo schienale; guardavo casa mia di là della strada e tutte le case intorno alla mia – un unico palazzo alveare come tanti anche tu ne hai visti, suppongo. In mezzo a questi pensieri molli non mi riusciva di distinguere niente di particolare che “valga la pena di essere pensato” – soprattutto non mi riusciva di capire perché mi piacesse starmene a prendere il sole come una lucertola di fronte a casa. I miei non erano là dentro, ne ero sicuro, loro lavorano. I vicini chi lo sa. Ma io ero lì in qualche maniera per farmi vedere, altrimenti me ne andavo su qualche altra panchina, suppongo. Volevo dimostrare al sole, probabilmente, che sapevo starmene davanti a lui senza vergogna, sfidandolo con le mie gambe allungate e i piedi mai fermi. Ogni tanto tiravo su col naso e lo facevo perché c’era un freddo boia e anche perché così mi atteggiavo. Ero una lucertola tesa al sole, pronta a scappare nel buco in caso di pericolo. Chi lo sa quando il pericolo è davvero pericoloso; quando non te lo aspetti, probabilmente, ma questo è un pensiero molle che ho sputato fuori con uno sputo poco convinto. Quando qualcuno passava sulla ciclabile con la sua bici – i suoi vestiti mi doveva scansare, potrei vantarmi di questo. Invece un tizio mi è passato sopra le caviglie – una sopra l’altra – che quasi mi butta per terra, il tizio è caduto con la bici – io ho urlato e alzandomi mi sono buttato addosso a lui e gli ho dato un numero imprecisato di pugni convulsi sulla schiena. Il tizio si proteggeva, quando ho smesso è rimasto con le mani sulla nuca per un attimo, poi si è girato di scatto e mi ha spinto via, l’ho visto negli occhi, aveva la mia età, l’avevo anche già visto da qualche parte, si è alzato ed è scappato via con la bici. Io ho dovuto sedermi sulla panchina di nuovo, mi facevano male le caviglie, non stavo in piedi, ma le botte che avevo dato mi avevano scaldato. Non sono un grande picchiatore, il tizio era ancora vivo. Conosco gente che con quel numero di pugni ti fa fuori. Allora ho pensato che sono stato fortunato che il tizio aveva la mia età. Se era più grande poteva reagire e allora ero finito. Sono un pessimo picchiatore, ma non riesco a trattenermi, questo è un problema. Il sole mi stava cuocendo le guance perché ancora me ne stavo lì a parlargli nelle orecchie con le caviglie pulsanti e tante parolacce in testa, ma in tono moderato; a occhi chiusi ascoltavo le bici scansarmi – mi è venuta in mente lei. Io sono solo un ragazzetto sfigato, ho pensato in un attimo. Lei mi è uscita di testa, mi sono tornato in mente io e ho ripreso ad annoiarmi. Infine con uno sbuffo mi sono alzato di scatto e ho preso a camminare verso giù. Le caviglie mi facevano zoppicare un po’, ma si poteva sopportare. Come prima cosa sono uscito dalla ciclabile e mi sono infilato in una via storta tra case più alte delle case che disegnano i bambini, ma più basse delle case dove vivo io. Era ombra là in mezzo e umido e tutto mi sembrava di un colore verde cupo come i cipressi i pini gli abeti, ma lì erano case. Era freddo davvero – la strada bagnata dalla notte – ho visto la bici del tizio che mi è passato sopra le caviglie. Era dietro una ringhiera nel giardino di una delle case, il cancello era appoggiato, così sono entrato convinto e senza guardarmi attorno ho tirato due calci alla ruota davanti che ho piegato i raggi, la bici è caduta facendo rumore, sono scappato mentre la ruota dietro girava a vuoto, l’ho vista con la coda dell’occhio ed era una cosa bella. Non mi sono voltato prima di due curve, mi sono infilato nel quartiere, leggero come una piuma, tranquillo come un re – non avevo paura di niente. Poi vedo all’angolo di un piazzale alcuni ragazzi parlare, ogni tanto mi guardano, uno lo riconosco dal giaccone, è lo stupido che m’è venuto addosso. Allora penso che chissà di chi era la bici che ho calciato, il tizio è a cavallo della sua; mi vengono incontro, lasciano cadere le bici e non so chi, non so da dove mi tira due pugni sulle costole, a seguire altri colpi, poi cado, nessuno in faccia per fortuna, poi se ne vanno. Non si stava così male, il piazzale è al sole – me ne stavo rannicchiato a respirarmi sulla giacca. Ho avuto paura di muovermi – i minuscoli sassi dell’asfalto rovinato erano qualcosa di interessante da guardare. Poi ho pensato che avrei fatto fatica a spiegare quei sassolini a qualcuno, così li ho dimenticati e mi sono concentrato sul mio corpo. Ero fermo e non stavo male, ma avevo una paura maledetta di muovermi. Non so perché. Forse perché temevo di avere rotto qualcosa, ma il tempo passava e stavo rannicchiato, distendendomi poco alla volta. Quando mi sono alzato intorno era come prima, non c’era nessuno tranne un gruppo di ragazzi che parlottava in uno degli angoli del piazzale. Stavo meglio di ogni previsione – solo un po’ zoppicando sono andato verso alcune macchine parcheggiate, su una mi sono appoggiato provando a muovere il collo, le braccia, le gambe – in tutte le direzioni, per capire dove avevo ancora male. Poi ho ripreso a camminare nel quartiere uscendo dal piazzale, guardando attentamente i ragazzi e non riconoscendone nemmeno uno. Io ero per loro come invisibile, mi sembrava, nessuno si è voltato un secondo a guardarmi. Ho temuto seriamente di essere invisibile, così sono tornato indietro. Li ho rivisti e ancora nessuno mi ha guardato, ho fatto loro un giro attorno, mi sono avvicinato, ho baciato sulla guancia una ragazza e sono scappato via di corsa. Mi hanno urlato qualcosa ma non mi hanno seguito. Non sono invisibile, ho pensato. E ho pensato anche che la ragazza aveva una guancia sottile, dolce, pulita, levigata, fredda, ero tutto eccitato e camminavo veloce come un carnivoro affamato in un supermercato. Mi sono toccato la guancia destra, ho provato a sentire se anche la mia era così levigata e lo era, era anche fredda e pulita. Mi spunterà la barba tra qualche anno, credo, come a tutti, ma ora sono liscio come lo era lei. Mi sono innamorato della mia guancia perché mi ricordava la sua, erano così simili, sembravano identiche, ma quando toccavo la mia guancia non era come quando ho toccato la sua. E’ una cosa diversa, del tutto. Ma è una cosa di sensazione. Io sento di toccare me stesso toccandomi, toccando lei ho toccato me stesso senza il sentimento del tocco, questo ho sentito. La vita era in me come era in lei, ho amato pazzamente la vita in quel momento, come la sentivo in lei così come era in me, ho pensato che non mi sarei mai accorto della vita se non l’avessi baciata: l’ho sfiorata con le guance secche e ho schiacciato fino a toccarla con il naso – se mi fosse davanti adesso non saprei neanche riconoscerla. Sono tornato indietro una seconda volta, ma non c’era più nessuno in quel piazzale. Se la guancia destra era così levigata però non si può dire della sinistra, l’avevo grattata per terra quando sono stato accovacciato prima, l’ho sfiorata con la mano e ho sentito bruciare, più di quanto brucia il sole, questa volta veniva da dentro, il calore. Sotto l’occhio avevo un grattone, ho tolto due micro sassolini dalla ferita, poi ho provato ad abbassare e alzare la mandibola, allargare la bocca – sentivo bruciare sempre di più. Ma non mi fermavo. Continuavo a giocare con la ferita, mi passavo via. Poco a poco tornavano i pensieri molli che avevo sulla panchina, camminare così a caso in strada non era una cosa divertente. Così mi sono seduto da qualche parte sul marciapiede e ho messo le mani in tasca. Guardavo il margine del marciapiede muovendo due cose che avevo in tasca, sentivo freddo al culo. Due piedi attaccati a due gambe si sono fermati puntando nella mia direzione – ho fatto finta di niente – i due piedi hanno ripreso a muoversi allontanandosi. Sono rimasto da solo un po’, poi ho pensato che avrei dovuto alzare la testa e guardare le due gambe a cosa portavano. Allora mi sono alzato e sono andato nella direzione delle gambe, ma era passato un po’ di tempo, per cui non le vedevo da nessuna parte, così le ho cercate. Ho girato qualche via osservando le gambe che incontravo, intanto il sole è sceso di colpo – quando mi sono stufato della ricerca era quasi buio. Ma era ancora presto. D’inverno pare funzioni così. Il freddo aumenta, e anche questo l’ho imparato alle elementari, io poi non sono uno che resiste volentieri, quando ho freddo ne ho tanto e inizio a tremare. Così tremavo ed ero finito a diverse via da casa. Le cose che avevo in tasca però erano un paio di euro così sono andato in un bar qualsiasi a bere una cioccolata calda. Ero seduto, avevo ordinato, non sapevo dove guardare, non sono uno che va nei bar, ma il caldo mi piaceva e anche l’odore vago di caffè misto al deodorante del bagno mi piaceva. Poi dalla porta sono entrati alcuni ragazzi – più grandi di me, delle superiori. Ne sono entrati alcuni che hanno riempito tutto lo spazio parlando e muovendosi come se fossero di casa. In fondo al gruppo, penultima ad entrare, la ragazza che sulla panchina mi era entrata in testa per qualche secondo. Questo mi ha rovinato. Sta nel mio palazzo, ogni tanto la incrocio – si muove come un gatto selvatico, ma anche è rovinata dentro. Lo sapevo io che dentro era rovinata. Aveva qualcosa di rovinato, come ce l’ho io. Avevo una voglia matta di toccarla e baciarla e tutto il resto. Guardavo le guance ed erano come le mie, ma all’ennesima potenza, la conoscevo perfettamente, l’ho vista mille volte entrare ed uscire dal palazzo, ma vederla nel suo ambiente naturale, così, mi sembrava svelata, era lei, ma non era mai stata così lei, prima. Vedevo chiaramente la rovina che ha dentro, una volta lasciata la pelle felina lei è così, e ancora non l’avevo vista fare niente. Era solo entrata, muovendosi come gli altri. Non ce l’ho proprio fatta a resistere. Ho finito la cioccolata, ho messo i due euro sul tavolo, mi sono alzato e respirando forte l’ho passata ad occhi bassi, deciso verso l’uscita, ma nel momento che le ho potuto sfiorare la schiena con la mano le ho stretto il culo, poi ho aperto la porta e camminando veloce sono andato, urlando “tu lo sai perché”. – Se qualcuno avesse visto quel ragazzino uscire di corsa dal bar e urlare quella frase affannata, quasi sicuramente l’avrebbe seguito con lo sguardo come si fa quando pensi che sia successo qualcosa che merita il tuo intervento. L’avrebbe seguito nella sua corsetta e sarebbe stato attento alla porta del bar, se si apriva, se qualcuno dentro sembrava urlare o fare qualche gesto strano, invece niente; a parte la corsetta del ragazzo nessun altro segnale di un evento particolare, che meriti di essere raccontato, per cui questa ipotetica persona testimone della scena sarebbe tornata alle proprie cose: un giornale, il passeggino, un cane, i propri pensieri, e avrebbe liquidato la faccenda con un “boh” soffiato tra le altre faccende personali. Tale è la nostra maggiore impresa agli occhi di qualcuno che vede solo l’azione e non nota nessun effetto negli immediati dintorni. Forse qualche svagato curioso avrebbe portato con sé la corsa del ragazzo almeno fino a casa, o qualche curioso di professione ci avrebbe macinato una giornata e mezza, puntando l’attenzione sui personaggi del bar piuttosto che sul ragazzo che è rimasto sulla scena pochi attimi. Le possibilità sono varie, ma nessuno è stato testimone di questa impresa, per cui nessun riverbero sui dintorni. Gli stessi personaggi del bar non sembrano aver dato grande peso alle azioni del ragazzo, anche perché la maggior parte non ha capito di preciso cosa sia successo. Egli è uscito di corsa dal bar dopo esser passato in mezzo a loro, poi, mentre la porta si chiudeva ha urlato qualcosa, ma nessuno avrebbe potuto affermare senza dubbio che fosse rivolto a loro, e poi nessuno sa di preciso le parole urlate. I più hanno capito “tu non sai chi è”. Per cui il ragazzo, la sua impresa e le sue parole hanno avuto l’effetto di un soffio in una stanza. E la ragazza cui è stato toccato il culo? Lei potrebbe avere qualcosa da dire sulla questione, lei conosce di vista il ragazzo e lei ha ricevuto il tocco; ma tutto quello che ha potuto arguire dalla situazione è un ragazzino che ha già visto da qualche parte che uscendo di corsa le ha preso dentro, sembrava piuttosto eccitato ed ha urlato qualcosa. Fine della questione. II Ho un caldo intollerabile, dal naso esce l’aria condensata, credo di essere tutto rosso, sento di avere la febbre. Le guance scoppiano, gli occhi lacrimano, le mani sudano – lei è dietro di me con le mie parole nelle orecchie e la stretta sul culo. Passo l’angolo e una strada enorme e vuota con tutti i suoi lampioni a posto e qualche cassonetto e qualche macchina ferma, rimette le cose al proprio posto. Pensavo di avere nella mano l’essenza della bellezza, pensavo a lei sulle mie spalle che me la porto via correndo e dietro la città in fiamme, invece questa strada mi accoglie come se fossi una persona qualsiasi che non ha fatto niente di speciale. La mano è la solita mano. Nessuna maledettissima sensazione che mi sale al cervello. Niente. Zero. Silenzio. Silenzio nelle mie tempie che dovrebbero bruciarmi e invece hanno freddo, passate da un’aria sottile che addormenta e uccide. Mi guardo attorno e non so più dove andare. Zoppico per tutta la via tormentandomi per non aver sentito niente di niente. Quando la via finisce è dove incontra un’altra via, che la taglia a 90 gradi – dietro una schiera di palazzi seminuovi che segue la perpendicolare e si perde a destra e sinistra fin tanto che posso vedere. Ora ho solo voglia di tornare a casa e sprofondarmi nel nulla. Sono affannato per il gesto inutile, voglio concentrami e capire fino in fondo di cosa si è trattato – le cose si accumulano, passano attraverso l’una all’altra, si confondono, per cui più ci penso – più cerco gli esili agganci meno trovo qualcosa e solo dopo essere tornato indietro fin quasi al bar mi accorgo di essere tornato al bar. Vorrei rientrare. Non vedo bene dentro se c’è ancora lei e i suoi amici e non riesco nemmeno a pensare dove possano essere. Mi immagino di entrare e avere silenzio attorno, di dirle così che mi dispiace per il gesto stupido – ho capito che non era niente e soprattutto non era niente se riferito a quello che volevo esprimere. Che mi piacerebbe darle la mano e sentire la sua, poterla guardare negli occhi… Mi giro e me ne vado per un’altra strada, provo una vergogna che è come se l’esofago stesse bruciando, dalla rabbia do una spallata ad un albero, stringo con i denti le labbra, ora darei una bella lezione al tizio della bicicletta, se fosse qui davanti a me. Gli direi che è un enorme stronzo – doveva fare attenzione, che i pugni non sono stati la giusta punizione, ma troppo poco, che se era da solo era finito, eccetera eccetera. Torno indietro verso il bar. Cammino deciso, mi fermo dove ero prima, non vedo dentro neanche un po’, mi viene il dubbio che non è lo stesso bar. Ora sono deciso ad entrare, affronto la combriccola, non posso andarmene, il bar è lo stesso, nessun dubbio, e loro sono ancora dentro, gli dico che – le dico che – le dico che lei è – che io so che lei ha gli occhi così fondi e che hanno il triplo fondo, che né ora né mai, nessuno ha mai visto sotto il triplo fondo, ma che io so cosa c’è là sotto, e che là sotto noi siamo… Che lei è rovinata, per dio, se lo è. Che io sono rovinato, che i graffi che ho li ho per lei, perché è tutto qui, tutta la vita è qui, che tutto viene nascosto dai gesti – che non c’è nessun peso da sopportare… Sto camminando verso il bar, sono deciso fino ad essere cattivo, cammino a lunghi passi, respiro forte da annebbiarmi la vista, entro nel bar e il bar è completamente vuoto. Non c’è nemmeno il barista. Sento tirare l’acqua del bagno, qualcuno dice “arrivo” e quando la porta si apre l’odore del deodorante mi spinge di nuovo fuori. Non doveva non esserci. Rimango senza pensieri e stupido per un tot. Mi riprendo che sto già camminando verso casa, ho fatto come un automa qualche chilometro, ho camminato per un po’ da adulto, con lo sguardo smarrito in avanti, le mani in tasca e il passo lento. Mentre mi atteggio così, due gambe mi superano e le avevo già viste, sono le gambe che non so dove portano, ora le vedo e sono di una persona qualsiasi, che vedo da dietro, mi va di seguirla, finché si volta e la posso vedere in faccia. Questa persona cammina più veloce di me, e cammina più veloce di quanto io possa fare, per cui mi distanzia poco a poco, finché dopo qualche minuto si volta indietro di scatto e poi fugge via. Io prendo paura, rimango bloccato e la vedo correre come una forsennata chissà dove. E’ una donna, una donna qualsiasi, ma aveva gli occhi sbarrati come non ho mai visto fare a nessuno. E’ una pazza, forse, chi lo sa, darei l’anima per essere lei e lei me, torno sui miei passi verso casa, di nuovo. Arrivo al portoncino, poi alla porta d’ingresso, infine all’ascensore che si sta muovendo. Premo il bottone, l’ascensore si ferma, si apre la porta, dentro c’è lei. Entro senza pensarci. La porta si chiude. Ora il cuore mi batte in gola come un tamburo rovinato, lei non ha fatto la minima espressione. L’ascensore parte. Lei è appoggiata alla parete, come se dovesse cadere da un momento all’altro. Io tiro su che ho la candela al naso, mi tiro su anche i pantaloni, siamo di fronte, quando sono entrato mi sono messo davanti a lei, diritto. Ma per lei questo è niente. Guarda dietro di me, verso la porta; quando l’ascensore si ferma fa il suono solito, poi si apre la porta, lei mi scansa, esce e sparisce, la porta si chiude. Resto faccia alla parete, l’ascensore rimane fermo qualche minuto, finché si muove verso un piano qualsiasi, che qualcuno l’avrà chiamato. Quando si apre la porta mi volto e faccio spazio, mi addosso alla parete, sul fianco come stava lei, guardo dietro la persona che ho davanti, la porta si chiude e l’ascensore risale il palazzo, si ferma al mio piano, esco anch’io, suono alla porta, mia madre apre, chiede se non ho le chiavi, vado in camera, mi tolgo la giacca – tiro un’enorme sbuffo. Solo ora il cuore scende dalla gola – fatico a visualizzare quello che è successo nell’ascensore. Se qualcuno mi dicesse che ci siamo baciati gli crederei, forse l’ho baciata sul serio e non riesco a raccontarlo. Non sembrava neanche lei, dopo averla vista al bar non può essere ancora lei quella nascosta nell’ascensore – non era lei. Chiudo bene la porta e mi lascio andare sul letto, tengo la schiena inarcata, le gambe a terra finché lo sforzo mi annebbia la vista, vorrei svanire in una contrazione dolorosa, mi chiedo come faccio ad essere così immensamente stupido da fare tutte queste cazzate in così poco tempo. Dovrò trasferirmi perché non so come potrò ancora stare vicino a lei. Oddio, se sapessi almeno il suo nome. Non sarebbe così distante allora, magari il nome non mi piace e lei mi diventa una persona come tutte le altre, magari solo più attraente, ma con un nome, un cognome, e sarebbe una di quelle persone che vive facendo gesti, che nasconde sé stessa nei gesti che compie, tanto da farli con tale naturalezza da essere puro gesto. Mi basterebbe il suo nome per attaccarle un gesto, una smorfia, un’indecisione. Ma lei non ha indecisioni. Lei è solo quella cosa tenue e profumata che mi entra nelle ossa ogni volta che la vedo, ogni volta che la penso. Trattengo il respiro e mi schiaccio il cuscino sulla faccia, perché non riesco nemmeno a farmi del male sul serio? Sento il grattone bruciare sotto l’occhio, ora le costole premono come se volessero uscire dal corpo, rotolo sul letto e mi schiaccio alla parete. E’ il mio gesto che mi diventa insopportabile. Forse mi sono addormentato o perso in qualche pensiero che non ricordo, fatto sta che ad un certo punto sento il silenzio abissale che c’è in questa casa quando tutti sono a dormire. Ho la luce accesa e sono ancora vestito, mi sarò addormentato qualche mezz’ora, ma ora sono sveglio e ho voglia di muovermi. Di solito ho paura a muovermi in casa con questo silenzio, mi sembra che anch’io dovrei essere silenzioso, invece quando mi muovo faccio rumore anche se non voglio. Fuori è silenzio pesto e dalla finestra vedo la strada con le macchine parcheggiate e tutto sul giallo-arancione, a parte un paio di palazzi che sono così alti che la luce in cima non ci arriva, allora sono scuri quasi come la notte, tendono ad una luce bianca-blu solo verso la cima, dove sono bagnati dalla luna che c’è per poco, poi ci sono le nuvole davanti, ma con calma. Quando decido a muovermi mi tornano in mente le botte che ho preso oggi, ma solo perché caviglie e costole ancora mi fanno male. Prendo la giacca, tiro su la cerniera e scopro che il rumore della zip è fortissimo in verità, quando vuoi fare silenzio è uno dei rumori peggiori. Allora esco dalla camera, cammino felpato fino all’ingresso, abbasso la maniglia fino allo scatto, che non posso evitare, esco sul pianerottolo, chiudo la porta che fa un rumore secco. Sento il rimbombo sommesso per tutto il giro scale, mi metto le scarpe in fretta e scendo di corsa sulle punte dei piedi tutti i gradini, gli ultimi due alla volta, e sono fuori, giallo-arancione anch’io sotto i lampioni. – Una città anche se modesta o semplicemente piccola, quando è notte va ad assomigliare a tutte le altre città nel mondo, con i suoi spazi di luce e le sue dimenticanze buie, quei posti che sono notte e basta, e che per questo attirano e fanno paura. Ogni città prova a circoscrivere questi spazi di notte, a schiacciarli e comprimerli per vincerli. Nessuna riesce nel proprio intento. Anche perché la luce di una città di notte è una specie di buio a propria volta, è una buia luce che cambia intensità di centimetro in centimetro, ogni centimetro essendo la somma di diversi fasci di diversi colori, di diverse intensità. Di notte, in città, è tutto spaiato, anche gli stessi lampioni, che sembrano tutti uguali, spazzano aree tra loro diverse e indifferenti, la prova di forza di una luce artificiale è la vittoria definitiva del buio, che la piega con il solo aiuto di un insetto che svolazzando disegna traiettorie d’ombra ed è solo un insetto contro centinaia di watt. Camminare in città di notte, di conseguenza, è un’esperienza tesa che varia d’intensità se sei al buio completo o sotto un lampione che fa il proprio dovere, ma non perde mai la tensione, nemmeno per un attimo; non riesci mai ad illuderti di essere alla luce, di essere dove dovresti essere; ti dici che non qui, non in questo momento dovresti vivere, eppure sei qui e non altrove e adesso è adesso e solo cadendo in un sonno profondo potresti andartene, ma sei all’aperto e il sonno è l’ultima cosa cui pensi, anche se stanco, la tensione che è il ronzio delle luci artificiali ti tiene sospeso, sempre a un passo dallo spezzarti, costantemente inevitabilmente sveglio. Questo pomeriggio qualcuno mi è passato sopra i piedi accavallati; mi è passato con la bici sopra questi piedi e da lì ho iniziato a muovere le mani. Questa è la cosa da ricordare, di questo giorno che proprio proprio non vuole finire. Tutto il resto sono idiozie di cui mi vergogno, anche se temo che è proprio a causa di queste che il giorno non vuole finire. Non me ne sono accorto subito, ma questa strada va verso il bar. Forse sono io quell’insetto che fa buio nel lago del lampione da 1000 watt.
Paugam

Racconta con parole tue cos’hai fatto mercoledì sera

Ecco il breve sunto (o il “pensierino”, come forse direbbe un amico) della serata di mercoledì 25 Aprile. Piazza s.f. 1.CITTA’ Ampio spazio libero, limitato tutto o in parte da costruzioni, all’incrocio di più strade o lungo il tracciato di una via importante S piazzale, spiazzo, largo: la piazza principale del paese; la piazza del Duomo a Milano 4. Scherz. (fam.) Lo spazio privo di capelli sul capo dei calvi. Aveva una tromba e gli abbiamo chiesto se sapesse suonare “Bella ciao”. Le dieci (l’orario dell’appuntamento) erano già passate da qualche dozzina di minuti e c’era aria di attesa. Un po’ di percussioni, ragazze, kebabbari e addirittura giacche e cravatte uscite dal lavoro che ballavano, tutti hanno cantato e nonostante la mia iniziale perplessità il risultato è stato degno di un 25 aprile non particolarmente feticizzato. Non una volta, ma più volte è risuonato tutto il canto in mezzo a quell’aria di festa. Ero passata in piazza già alle otto e quaranta (sì, prestino, avevo commissioni da fare) e prontissime c’erano una macchina della polizia e una dei carabinieri, appostate bellamente ai due ingressi principali. Sono tornata più tardi e ce n’era un’altra. Girano. Dopo un po’ che s’era inziato a cantare se ne sono andati, per pudore (spero almeno un po’), per prudenza pre-elettorale. Altre note sono riecheggiate: da“Fischia il vento” a “Se non li conoscete” (grazioso Fausto: “Solamente dei fascisti sembran tori ma son buoi.”). E ancora musica e balli, e belli i corpi che si muovevano, un po’ ossessivi, e io ero contemporaneamente una di loro e lo sguardo di una vecchia che con malinconia appoggia i suoi ricordi alle giovani membra convulse. Come un velo sulla piazza un registratore ha intrappolato tutto questo, la sagoma erano i cori e il brusio delle chiacchiere, mentre una statua divertita partecipava in silenzio. Dante Alighièri. – Poeta (Firenze, tra il maggio e il giugno 1265 – Ravenna, notte dal 13 al 14 settembre 1321). Della madre, che dovette morire presto, non sappiamo che il nome, Bella. Bella ciao, bella la piazza, libera? Ieri forse, non poteva essere altrimenti. In effetti ho sbajado, rettifico: piazza concessa dalla ricorrenza, anzi, dalle ricorrenze. Starà al futuro, ovvero dal 9 Maggio in poi, decidere se il simbolo di una Verona “altra” riuscirà ad essere tale o verrà nuovamente ostacolato. Intanto godiamoci lo spettacolo imbarazzante di macchine o biciclette tappezzate di stendardi, manifesti o quant’altro di estremamente kitsch possa decorare la nostra città eccitata in questo periodo dell‘Avvento. 
Anna Fucci

Un picchetto al giorno

Una delle cose che più mi affascina di questo palazzo è il forte miscuglio di odori che si produce nella tromba delle scale, provenienti per la maggior parte dalle cucine degli appartamenti. Credo non esista un momento nella giornata in cui tutte le cucine siano improduttive. Ognuno partecipa al menù del palazzo, ognuno con i suoi orari, ognuno coi suoi ritmi. Poi verso le undici di sera le cucine si placano, gli odori si depositano e vanno a formare il tipico odore di questo edificio. Mercoledì scorso mi sa che sono stato l’ultimo a cucinare. Mi sono fatto delle malinconiche lenticchie (la vergogna del palazzo, temevo che mi suonassero da un momento all’altro: “Scusi, ma ci sta rovinando il menù del palazzo! un po’ di quel che ci vuole, per cortesia!!”). Manco il tempo di pensare a sta cazzata che il rumore del chiavistello mi blocca la masticazione: entra il coinquilino con tre amici, si fiondano affamatissimi in cucina, “ciao”, “ehi”, si distribuiscono tra armadietti, frigo, lavabo, fornelli, lava, taglia, friggi: in zero due secondi montano dei panini con le prime cose che trovano (fortuna sono arrivati almeno alla cucina, pensavo), “noi andiamo ai picchetti, vuoi venire?”. In pochi istanti la malinconia era dicisamente scesa di livello. “Metto le scarpe e arrivo”. Era da giorni che sentivo parlare di questi picchetti “si fanno la notte prima dello sciopero generale, per bloccare il mercato del consumo, i media e tutto quello che si può bloccare”. Sticazzi, da noi nella migliore delle ipotesi la sera prima di uno sciopero generale ci si trova su un regionale per Roma. Parcheggiamo e ci mescoliamo alla folla: circa trecento persone impiantate ad una rotatoria che obbligano i tir entranti a percorrerla tutta e tornare indietro. “È l’ingresso all’area logistica di generi alimentari più importante della regione, nonché quella da cui attinge quasi l’intero mercato cittadino”. Un’area di quasi cinquecentomila metri quadrati, nella quale si affaccendano circa duecentotrenta imprese e circolano quasi quattrocentottantamila tonnellate di prodotti ortofrutticoli, di pesce e di carnazza. Dicono che, come ogni giorno, devono arrivare quintali di camion fino alle cinque, ma sono le tre e già non arrivava più nessuno. La notizia del blocco a quanto pare ha già girato e giustamente i camionisti si vorranno risparmiare la passerella (che comporta insulti, adesivi, sbombolettate, petardi ma anche luci di telecamere e microfoni di canali televisivi). Oltretutto adesso c’è un camion fermo in mezzo alla strada che non riesce più a ripartire, dando al picchetto una tenera aria di barricata. “Sembra che domani la città mangerà gli avanzi del giorno prima”, uaa detta così suona proprio bene.. vaglielo a dire ai miei vicini! A saperlo tra l’altro non finivo le lenticchie, che ho divorato con tanto di scarpetta. E forse qui sta un po’ il problema.. crescere a suon di «finisci quello che hai nel piatto» è di certo un bene, ma solo in un regime di povertà. Con le tonnellate di roba che transita di qui ogni giorno, che nuovi significati prende sta frase? Minchia ma poi quattrocentottantamila! Com’è che non siamo tutti obes “Oh ci sei?”, “Sì. Scusa ero sovrappensiero”, “Vieni che ci becchiamo alle auto con gli altri e vediamo che fare”
P. Catena

29 marzo. Sciopero generale in tutta Spagna

Lo vedo da Castellón de la Plana, città che Wikipedia italiana liquida con 3 date nel XIII secolo. Non è Madrid, non è Barcellona, non è Bilbao, non è neppure Valencia, ma picchetti, sciopero e manifestazione-sfilata si fanno anche qui, come ovunque. È già tardi per la manifestazione, la fanno ora che ha toccato i posti di potere dei sindacati. «En Murcia tiran molotov. En las ciudades más grandes la policía carga – la voce alta e il tono concitato rompono il flow di Radio Malva, impegnata nel 24 ore militant di copertura della huelga, insieme alle altre radio libere spagnole; loro raccontano insistentemente, lei insiste di più, raccontando – Coño, cien por cien de huelga de transporte en Euskadi – i baschi non perdonano – y más del 90 por ciento en las grandes ciudades.» Non lasciando spazio alla radio, con una mescola di italiano, francese, spagnolo e catalano, le sue labbra scandiscono informazioni. Moltissime fabbriche, imprese e negozi sono fermi, persino alcuni centri commerciali enormi come i Corte Ingles, dove è difficilissimo rubare persino un kit di riparazione per le camere d’aria della bici. Anche i chino sono chiusi e molti bar sono aperti solo per chi fa i picchetti. Televisioni, giornali, porti, mercati, trasporti. Stop. Insomma, pare funzioni. E non sono neppure le 13.00. La vicina, su una terrazza più alta, interrompe la siesta al sole a cui tutto il cibo mangiato costringe anche il più forte degli stomaci. «Mira el humo que viene de la autopista.» L’amica le ricorda che oggi è huelga e staranno quindi bruciando qualche cosa per bloccare l’autostrada. Ostia, anche a Castellón de la Plana? Vince lo stile Leopardi, abbandonato allo scazzo e sconfitto dalla siepe: non mi alzo in direzione del fumo. Andiamo, ma non con gli stivali. Meglio suggerire l’utilizzo di scarpe da ginnastica, che se si devono correre i 100 metri sotto i lacrimogeni almeno lo si fa con il bel gesto atletico, di quelli che piacciono per la grazia del movimento, indipendentemente dal risultato. Ah si, prendere anche il Vermouth, 1 euro e 69 contro i 7 y pico del Martini, che senza una bevutina le manifestazioni-sfilata sono pallose. E quattro mandarini. E una bottiglia d’acqua. E la giacca per dopo. Lo zaino pesa, comprometterebbe il gesto atletico e neppure i 15 gradi del vino dolce aiuterebbero. La discesa dalla zona universitaria verso il centro è accompagnata da rapide biciclettate e dal garrire della bandiera catalana che scende con noi. Ah, regionalismi di cui non vergognarsi. Palazzi grandi, blocchi dove consumarsi la vita, costruiti nello stesso periodo dell’Università. Praticamente un terzo di Castellón è stato costruito in dieci anni. E si vede. Qualche km tempestato di 29 M Vaga General CNT sui muri, Huelga con una A cerchiata a lato, famiglie e orde di bambini nei parchi che potrebbe sembrare Castiglione delle Stiviere, d’estate e in mano ai turisti tedeschi, più che Castellón de la Plana, e siamo già in centro. Calle mayor, Calle de enmedio, e la Calle Alloza, detta dagli abitanti, ovviamente Calle de arriba. Che nomi del cazzo. Sfilata: uff. Consolazione: fare un giro per la città non è male, e vedere bandiere rosso-nere e nere sventolate in testa al corteo e non spinte in coda, apre a un sorriso sincero. I compagni stanno davanti, precedendo i sindacati di diverse decine di metri. Slogan anticapitalisti, attacchinaggio di manifesti, scribacchiate, sventolio di bandiere. Insulti alle banche e sistematica serrata a forza delle saracinesche dei negozi ancora aperti. Altrove si vede altro. Uh, una bandiera viola, le femministe! Chissà se sono cattive come le francesi. «No son las francesas, erano exactamente quelle de Grenoble a far paura. Y basta, smettila di guardare culos delle altre – sgamato – No, haz lo que quieras, tranquillo. Mira culos si te la pone dura.» Tanto mañana si torna al trabajo. O almeno chi l’ha ancora.   
Lledo Garcia