Darsi fuoco

Ultimamente si sente molto parlare di suicidio in tempi di crisi. A giudicare dalle notizie, sembra che la crisi stia portando all’esasperazione diverse vite, arrivando al suicidio attraverso svariati metodi (impiccagione, inalazione di gas, colpi d’arma da fuoco, cadute nel vuoto o tra i binari, combustione, eccetera). Un quadro tanto chiaro e condivisibile quanto normalizzante e salvifico per noi rimasti in vita. I suicidi non sono in tempi di crisi ma in tempi di capitalismo, come l’arrivare a fine mese non è una difficoltà che accade in tempi di depressione economica ma una sfida che ha l’età del salario. Le morti forse più riconducibili ai cicli di crisi sono quelle degli imprenditori suicidi, per i quali -essendo già una categoria e quindi avendo già un certo spettro di possibilità- si è vista formare un’associazione dei famigliari delle vittime. Cosa che invece sembra essere più complicata per quei disoccupati suicidi e per quelle vite spossate ed esasperate innominabili se non una ad una. Ma non è tanto questa la distinzione che deve qui emergere, quanto quella delle modalità di suicidio. È chiaro: i metodi scelti per morire non sono per nulla casuali e determinano una precisa esasperazione. Ogni suicidio non è UN suicidio ma IL suicidio, tant’è vero che morire appeso al cappio non è la stessa cosa che morire di combustione. Il primo lo si farà mai in piazza? Il secondo lo si farà mai in cantina da soli? Il suicidio non è dunque una sorta di atto generico che può accadere arbitrariamente su qualsiasi corpo. Non è il semplice e intercambiabile spegnersi di una vita in un contesto di dettagli secondari. Esso consiste sempre di precisi elementi sulla scena che obbligano a considerare ognuno di questi gesti come una figura completa e insintetizzabile. Quache settimana fa un uomo s’è dato fuoco davanti alla Gran Guardia a Verona. Quasi due mesi fa uno a Bologna, che morì dopo 9 giorni in ospedale. Il darsi fuoco non è un generico suicidio “per” qualcosa (disoccupazione, indebitamento, depressione, ecc.) ma una figura completa che concerne il luogo pubblico, i tempi di combustione, di soccorso e più in generale il lamento che nasce dall’oppressione. [Il cappio ha più a che vedere con un luogo solitario, una muta scomparsa, un lamento soffocato già prima che s’anneghi il respiro]. Il suicidio per combustione è accostabile forse allo sciopero della fame, nella misura in cui sviluppano entrambi un tempo di consumo della vita -combustione e digiuno appunto. La morte ne sarà dunque un effetto, ma non prima di una precisa successione temporale durante la quale può ancora accadere di tutto. Ne viene che prima di essere un suicidio, il darsi fuoco è un lamento drammatico. O in altri termini il darsi fuoco è un suicidio solo nella misura in cui la stessa rivolta è un suicidio. Non si tratta dunque di estrapolare il generico gesto di togliersi la vita per spiegare il contesto attraverso passaggi di causalità logica. Di questo se ne occupano già i media – solitamente molto male ma non possono fare altrimenti. Si tratta piuttosto di riflettere su come s’è ridotta l’insurrezione e la resistenza allo sfruttamento e all’oppressione. Riflettere su cosa ne è del conflitto e del confronto tra oppressi – o cittadini. In altre parole, se da un lato le fiamme bruciano una disperazione, dall’altra si rivelano esse stesse come metodo di lotta. L’ultimo, in tempi di martellante individualismo e in luoghi di ferree comunità prestabilite. Perché forse il calore di certe fiamme, distribuito su più vite, riscalderebbe intere terre. Ma concentrato su un solo corpo non può che consumarlo brutalmente, dissipando l’energia dirompente che le scatena in una solitaria e marginale lotta alla sopravvivenza.