I. Hei mamma, qualcosa brucia laggiù

Il ciclico ritmo a cui siamo abituati ci prepara a un maggio di fuoco: lo sciogliersi degli invernali ghiacci cerebrali e politici rivelerà un manto urbano in cui sbocciano le fiammate di rabbia. Quest’anno però le fiamme sono arrivate in anticipo. Non il fuoco estetico-militante del post-manifestazione, non le camionette degli anti-sommossa e la fumata nera dei cassonetti, non il vicino fuoco greco le cui lingue toccano l’Europa mediterranea. Questi sono fuochi perenni. Invece di queste fiamme di furore e rabbia, spesso teatralizzate all’inverosimile e dibattute fino al loro spegnimento totale in una complessa e soffocante sterile analisi, le fiammelle fresche, un po’ in anticipo sulla stagione, ardono ben altro. Fenomeni di autocombustione di corpi senza lavoro, ad esempio. È nel silenzio umano della piazza-mercato, commercio e non democrazia, che il rumoroso gesto di chi è privo di voce rimane muto nonostante il fracasso provocato. Il nascente causa-effetto del momento, il crisi-suicidio, mancanza di lavoro-suicidio, chiusura impresa-suicidio, si tinge delle tonalità del fuoco sulla carne dei lavoratori. Il suicidio, intimità di un gesto non propriamente intimo, spesso ultimo e disperato grido affermante l’esistere di un’esistenza condannata alla non-esistenza, incontra qui il palco dell’esposizione teatrale, il mercato dell’estetica, la piazza del commercio, e deraglia da un binario apparentemente obbligato. È il suicidio con il fuoco, ma non quello che chiama flash e applausi, sbirri e pietre, giornalisti e pagine di storia, urla e “io c’ero quel giorno, là nella piazza”. Così teatrale eppure così intimo e silenzioso, respinto e dimenticato, inascoltabile. Nel silenzio della steppa relazionale, il fuoco arde e nessuno se lo caga. Queste fiamme non catturano lo sguardo; esse gridano al fuoco stesso, unico elemento che le ascolta. Fuoco, corpo, piazza. Eppure non si produce l’icona delle fiamme suicide nonostante ci siano gli elementi. Questo fuoco non vende. Manca qualche cosa? L’idea di libertà, gli ideali, una causa per cui immolarsi? Fuoco, corpo, piazza; eppure oblio e non Storia. Forse non è una mancanza ma un’eccedenza a frantumare la possibilità dell’icona. Questo fuoco è troppo. Troppo muto e disperato, troppo lontano e terrificante, troppo semplice e incomprensibile, troppo ingenuo e potente. Ha il troppo da dire di chi non vuole dire nulla perché non ha più nulla da dire, o di chi vuole dire tutto e al mondo intero, e ne esce un grido inascoltabile e indecifrabile. Qualcosa salta in questa comunicazione sopratutto per chi cerca una comunicazione lineare in ogni situazione. Non è un grido d’aiuto. Suona differente e non domanda una risposta. É il grido muto dello spegnersi di un corpo nel divampare delle fiamme. Questo, come molti altri, è un grido inascoltabile. È impossibile prenderne una ben calibrata distanza, soppesarne le ragioni, sentirsi partecipi o allontanarsene. È troppo vicino e troppo lontano; è un fuoco che arde a pochi metri dal passeggiare tranquillo, e nello stesso tempo chilometri di ghiaccio si frappongono. Le lingue di fuoco che svettano nel cielo schivano le gabbie rigide delle categorie e si abbracciano oltre le sbarre dei contesti e delle storie e vite, singole e collettive, logorando le catene causa-effetto. Corpi in fiamme che rimandano ad altri corpi in fiamme, ad altri corpi e ad altre fiamme. E poi piazze, patiboli e ancora roghi. Storie,vite, epoche. Non sono gli stessi fuochi? Eppure le fiamme sono uguali. Corpi e fiamme si sovrappongono nonostante tutto. Corpi diversi, volti diversi, fiamme diverse, cause -se sono rintracciabili cause in quanto tali- diverse. Cosa rimane? Il fuoco, il resto è già cenere. Corpi in fiamme si consumano lentamente. Il loro grido è indecifrabile. La luce dei riflettori non li illumina neppure se è puntata. Per quello che non sarà Storia o Arte, e dunque reso un omogeneizzato accuratamente sterilizzato, è pronto il più rassicurante oblio. Una sbadilata di terra sulle fiamme.