Aprite le gabbie: a ricostruire ciò che il terremoto ha distrutto!

“Mi ricorda qualcosa, però non so cosa”. Questo è il titolo con cui mi hanno linkato la proposta della Severino: far partecipare i detenuti non pericolosi alla ricostruzione. Geniale. I lavori forzati. Una proposta che solo la ministra della Giustizia poteva avanzare, una proposta talmente grossa che deve essere limata: i detenuti a cui sarebbe offerto questo ruolo da protagonista sarebbero solo quelli non pericolosi, magari già in regime di semilibertà, e poi il lavoro – soprattutto se socialmente utile – non può che favorire il rientro, re-integro, in una società (del lavoro). Il disegno vuole carcerati produttivi in un momento dove la disoccupazione avanza e con essa anche le tensioni sociali che, unite alla demonizzazione del conflitto sociale – e la repressione dello Stato in Val di Susa ben lo dimostra –, potrebbero delineare la figura del disoccupato con le caratteristiche di agitatore e pericoloso parassita sociale, terreno fecondo per la lotta politica. Carcerato e disoccupato mai così vicini. Nel Capitale strutturato sul lavoro, la crisi del Capitale sancisce l’indispensabilità del lavoro. Così l’improduttivo deve comunque lavorare e in questo spostamento suona uno sferragliare di catene e l’agghindamento a premio. Il carcerato che in una società del lavoro è privato innanzitutto del lavoro, poiché questo è considerato la base stessa della società e forse anche del vincolo sociale, ora è invitato a prendere in mano gli arnesi e ricostruire ciò che il terremoto ha demolito. Gli appalti e il denaro già sono in circolo come l’altra faccia di ogni ri-costruzione, così come la militarizzazione delle aree colpite dal sisma sicuramente sta già dando i suoi frutti, bene: in questo territorio trinceato e murato, controllato da fucili e telecamere, si può aprire la cella per il trasferimento dell’operaio specializzato, quello che già è abituato a questo ambiente: il carcerato. Una proposta allettante (forse), un trasferimento senza traumi, il massimo della resa con il minimo di controllo (perché quello già è presente), lavoro utile per una ricostruzione dove anche il reietto gioca il ruolo del protagonista. Perché si può obbiettare che, all’uscita dalla cella, l’ex prigioniero non trovi lavoro, sia un soggetto debole e discriminato, e necessiti un rapido re-integro nella società – così dipinta la proposta della Severino potrebbe passare per valida. Però non convince… Però…non sai cosa ti ricorda? Boh, a me tante cose, dalle navi galere ai lavori forzati nei fascismi. Ma questo è nuovo, e porta con sé implicazioni che hanno nel passato solide radici, radici mitiche. La riflessione sul carcerato tocca immediatamente il tema del “nemico interno”, il tema del lavoro tocca invece i fondamenti stessi della odierna società. La riflessione su questi due temi indica un cambio, uno spostamento, nell’intera struttura sociale poiché insieme delimitano la comunità sociale e la definiscono, includendo ed escludendo soggetti, dichiarando amici e nemici, utili e inutili, sani e appestati – lavoratori e disoccupati nel paradigma contemporaneo. Si delinea un presente in cui il carcere, il lavoro e tutta la società stanno rapidamente cambiando, spinti dallo spauracchio della crisi, dalla tecnocrazia europea e da un capitalismo sempre più totalitario; e questa stessa spinta permette un circolare incremento dei vettori che definiscono la spinta stessa.
Elsa Valbrusa

Darsi fuoco

Ultimamente si sente molto parlare di suicidio in tempi di crisi. A giudicare dalle notizie, sembra che la crisi stia portando all’esasperazione diverse vite, arrivando al suicidio attraverso svariati metodi (impiccagione, inalazione di gas, colpi d’arma da fuoco, cadute nel vuoto o tra i binari, combustione, eccetera). Un quadro tanto chiaro e condivisibile quanto normalizzante e salvifico per noi rimasti in vita. I suicidi non sono in tempi di crisi ma in tempi di capitalismo, come l’arrivare a fine mese non è una difficoltà che accade in tempi di depressione economica ma una sfida che ha l’età del salario. Le morti forse più riconducibili ai cicli di crisi sono quelle degli imprenditori suicidi, per i quali -essendo già una categoria e quindi avendo già un certo spettro di possibilità- si è vista formare un’associazione dei famigliari delle vittime. Cosa che invece sembra essere più complicata per quei disoccupati suicidi e per quelle vite spossate ed esasperate innominabili se non una ad una. Ma non è tanto questa la distinzione che deve qui emergere, quanto quella delle modalità di suicidio. È chiaro: i metodi scelti per morire non sono per nulla casuali e determinano una precisa esasperazione. Ogni suicidio non è UN suicidio ma IL suicidio, tant’è vero che morire appeso al cappio non è la stessa cosa che morire di combustione. Il primo lo si farà mai in piazza? Il secondo lo si farà mai in cantina da soli? Il suicidio non è dunque una sorta di atto generico che può accadere arbitrariamente su qualsiasi corpo. Non è il semplice e intercambiabile spegnersi di una vita in un contesto di dettagli secondari. Esso consiste sempre di precisi elementi sulla scena che obbligano a considerare ognuno di questi gesti come una figura completa e insintetizzabile. Quache settimana fa un uomo s’è dato fuoco davanti alla Gran Guardia a Verona. Quasi due mesi fa uno a Bologna, che morì dopo 9 giorni in ospedale. Il darsi fuoco non è un generico suicidio “per” qualcosa (disoccupazione, indebitamento, depressione, ecc.) ma una figura completa che concerne il luogo pubblico, i tempi di combustione, di soccorso e più in generale il lamento che nasce dall’oppressione. [Il cappio ha più a che vedere con un luogo solitario, una muta scomparsa, un lamento soffocato già prima che s’anneghi il respiro]. Il suicidio per combustione è accostabile forse allo sciopero della fame, nella misura in cui sviluppano entrambi un tempo di consumo della vita -combustione e digiuno appunto. La morte ne sarà dunque un effetto, ma non prima di una precisa successione temporale durante la quale può ancora accadere di tutto. Ne viene che prima di essere un suicidio, il darsi fuoco è un lamento drammatico. O in altri termini il darsi fuoco è un suicidio solo nella misura in cui la stessa rivolta è un suicidio. Non si tratta dunque di estrapolare il generico gesto di togliersi la vita per spiegare il contesto attraverso passaggi di causalità logica. Di questo se ne occupano già i media – solitamente molto male ma non possono fare altrimenti. Si tratta piuttosto di riflettere su come s’è ridotta l’insurrezione e la resistenza allo sfruttamento e all’oppressione. Riflettere su cosa ne è del conflitto e del confronto tra oppressi – o cittadini. In altre parole, se da un lato le fiamme bruciano una disperazione, dall’altra si rivelano esse stesse come metodo di lotta. L’ultimo, in tempi di martellante individualismo e in luoghi di ferree comunità prestabilite. Perché forse il calore di certe fiamme, distribuito su più vite, riscalderebbe intere terre. Ma concentrato su un solo corpo non può che consumarlo brutalmente, dissipando l’energia dirompente che le scatena in una solitaria e marginale lotta alla sopravvivenza.

I. Hei mamma, qualcosa brucia laggiù

Il ciclico ritmo a cui siamo abituati ci prepara a un maggio di fuoco: lo sciogliersi degli invernali ghiacci cerebrali e politici rivelerà un manto urbano in cui sbocciano le fiammate di rabbia. Quest’anno però le fiamme sono arrivate in anticipo. Non il fuoco estetico-militante del post-manifestazione, non le camionette degli anti-sommossa e la fumata nera dei cassonetti, non il vicino fuoco greco le cui lingue toccano l’Europa mediterranea. Questi sono fuochi perenni. Invece di queste fiamme di furore e rabbia, spesso teatralizzate all’inverosimile e dibattute fino al loro spegnimento totale in una complessa e soffocante sterile analisi, le fiammelle fresche, un po’ in anticipo sulla stagione, ardono ben altro. Fenomeni di autocombustione di corpi senza lavoro, ad esempio. È nel silenzio umano della piazza-mercato, commercio e non democrazia, che il rumoroso gesto di chi è privo di voce rimane muto nonostante il fracasso provocato. Il nascente causa-effetto del momento, il crisi-suicidio, mancanza di lavoro-suicidio, chiusura impresa-suicidio, si tinge delle tonalità del fuoco sulla carne dei lavoratori. Il suicidio, intimità di un gesto non propriamente intimo, spesso ultimo e disperato grido affermante l’esistere di un’esistenza condannata alla non-esistenza, incontra qui il palco dell’esposizione teatrale, il mercato dell’estetica, la piazza del commercio, e deraglia da un binario apparentemente obbligato. È il suicidio con il fuoco, ma non quello che chiama flash e applausi, sbirri e pietre, giornalisti e pagine di storia, urla e “io c’ero quel giorno, là nella piazza”. Così teatrale eppure così intimo e silenzioso, respinto e dimenticato, inascoltabile. Nel silenzio della steppa relazionale, il fuoco arde e nessuno se lo caga. Queste fiamme non catturano lo sguardo; esse gridano al fuoco stesso, unico elemento che le ascolta. Fuoco, corpo, piazza. Eppure non si produce l’icona delle fiamme suicide nonostante ci siano gli elementi. Questo fuoco non vende. Manca qualche cosa? L’idea di libertà, gli ideali, una causa per cui immolarsi? Fuoco, corpo, piazza; eppure oblio e non Storia. Forse non è una mancanza ma un’eccedenza a frantumare la possibilità dell’icona. Questo fuoco è troppo. Troppo muto e disperato, troppo lontano e terrificante, troppo semplice e incomprensibile, troppo ingenuo e potente. Ha il troppo da dire di chi non vuole dire nulla perché non ha più nulla da dire, o di chi vuole dire tutto e al mondo intero, e ne esce un grido inascoltabile e indecifrabile. Qualcosa salta in questa comunicazione sopratutto per chi cerca una comunicazione lineare in ogni situazione. Non è un grido d’aiuto. Suona differente e non domanda una risposta. É il grido muto dello spegnersi di un corpo nel divampare delle fiamme. Questo, come molti altri, è un grido inascoltabile. È impossibile prenderne una ben calibrata distanza, soppesarne le ragioni, sentirsi partecipi o allontanarsene. È troppo vicino e troppo lontano; è un fuoco che arde a pochi metri dal passeggiare tranquillo, e nello stesso tempo chilometri di ghiaccio si frappongono. Le lingue di fuoco che svettano nel cielo schivano le gabbie rigide delle categorie e si abbracciano oltre le sbarre dei contesti e delle storie e vite, singole e collettive, logorando le catene causa-effetto. Corpi in fiamme che rimandano ad altri corpi in fiamme, ad altri corpi e ad altre fiamme. E poi piazze, patiboli e ancora roghi. Storie,vite, epoche. Non sono gli stessi fuochi? Eppure le fiamme sono uguali. Corpi e fiamme si sovrappongono nonostante tutto. Corpi diversi, volti diversi, fiamme diverse, cause -se sono rintracciabili cause in quanto tali- diverse. Cosa rimane? Il fuoco, il resto è già cenere. Corpi in fiamme si consumano lentamente. Il loro grido è indecifrabile. La luce dei riflettori non li illumina neppure se è puntata. Per quello che non sarà Storia o Arte, e dunque reso un omogeneizzato accuratamente sterilizzato, è pronto il più rassicurante oblio. Una sbadilata di terra sulle fiamme.

II. Essere inchiodati alla sventura come destino

È come se, con il ricorso al fuoco, l’atto del suicidio riprendesse possesso della propria etimologia, rispecchiando alla lettera il caedere sui, quell’atto di tagliare fino all’incisione della carne – tanto la propria quanto quella del corpo altrui, fino al cuore del metaforico corpo sociale. Del resto, se nel gesto del suicidio permane ancora un che di impensabile, ciò è dovuto alla radicalità con cui questo recide ogni legame con… con cosa? Prima ancora – o se si vuole: più radicalmente – che con quel corpo sociale che teme il suicidio come l’incisione di una condanna, questo gesto recide da chi lo compie qualcosa come un destino, una sventura cucita, mescolata, confusa, inchiodata al corpo che deve patire. Come se il ricorso al fuoco non fosse altro che il segnalatore di una sventura abissale, senza alcuna via d’uscita – di una sventura gravosa a tal punto da mischiarsi, da confondersi, in altre parole: da legarsi ai corpi alla stregua di un destino. È contro un tale destino, e con esso contro quei corpi che sembrano così inchiodati all’ineluttabile, che le fiamme divampano inesorabili: esse rigettano un tale destino, dunque, ma solo al prezzo di gettare nel fuoco il corpo che da esso è stato ridotto a mero supporto. Come se (ma non possiamo fare altro che ribadire, ripetere, reiterare all’infinito questo “come se”, indicatore a sua volta di una nostra impossibilità, e della separazione sfuggente che non smettiamo di abitare) il corpo fosse stato promesso a un’estrema redenzione, nell’atto stesso di scorporarsi da quel destino di sventura e illuminare la notte consumandosi con il fuoco. La Città come la Strada, o come questi corpi, innumerevoli e al contempo singolari, senza dimenticare questo proprio Corpo, pesante del peso di un’imposizione tanto tirannica quanto sfuggente, impalpabile, sono chiamati nell’atto rivoltante a dis-integrarsi, a separarsi dal destino loro imposto. Tuttavia, è solo tramite la loro dissoluzione che sembra possibile aprire all’impossibile, in altre parole negare la realizzazione di ciò che sembra imporsi con l’evidenza dell’inesorabile. Finché i dispositivi di potere si limitano a colonizzare, parassitare, vampirizzare tanto il Corpo quanto la Strada, la Città, o le singolarità, a questi è ancora concessa tutta l’alea del movimento e dello scontro, tutta la libertà che scaturisce dalla lotta e dalla collisione. È solo quando il dispositivo si impone quale unico fondamento immanente tanto di questi corpo che io abito quanto di questa soggettività a cui cerco di corrispondere, solo allora la fuga dal destino imposto si tinge di notte, solo allora la disperazione chiama la fiamma quale ultima, sfolgorante chance di visibilità.

La mercificazione della macelleria mediatica

L’attentato di Brindisi è stata l’ennesima occasione per la stampa di mettere in moto là sua macelleria mediatica. C’è modo e modo di fare informazione e Mediaset si conferma regina per dare allo spettatore immagini che hanno un retrogusto di collezionismo morboso che sfiora il feticismo. Le fotografie di Melissa a tre anni o addirittura il video della sua prima comunione, condite dall’immancabile voce della giornalista di StudioAperto in grado solo di fare servizi tutti uguali conditi da immancabili cliché e frasi fatte, beh direi che forse è il caso di rivedere la professionalità di questi personaggi che si etichettano giornalisti e magari cacciarli dall’Ordine. Onestamente di un servizio del genere ne avrei fatto a meno. Mercificare sulla vita spezzata di una ragazza di 16 anni è solo l’ultimo caso del meccanismo bel oliato che Mediaset, ma anche altri, chiamano giornalismo. A me sembra più uno spettacolo trash che ben si integra nella macchina della Società dello Spettacolo debordiana e in quanto tale la soluzione non è il boicottaggio bensì l’annientamento di tale sistema disgustoso.
Matte

Adesso ammazzateci tutti

“Adesso ammazzateci tutti”. Uno striscione che suona come sfida e provocazione, ma anche come denuncia e rancore: nei confronti di chi ha ordito il piano della strage come di chi, prima ancora che lo scomodo cui prodest? sia stato mormorato, si getta a terra – il volto e il nome bene in vista, la voce altrettanto udibile dagli schermi e dai fogli – per invocare l’ennesimo slancio di unità nazionale, l’ennesima cura del paese, la ricostituzione di un corpo politico, quello nazionale, le cui lacerazioni sembrano contare ben più di quelle che affliggono le vittime di Brindisi. Abituati ormai a ricevere lacrime mediatiche in cambio di sciacallaggio economico, esortati a rinsaldarci proprio laddove qualcuno ha preteso escludersi decidendo chi dovesse vivere e chi no, non siamo più in grado di nascondere la nostra perplessità – se non il nostro disprezzo – nei confronti degli slogan rincuoranti, dei motti inneggianti all’accordo e alla coesione. Questo perché la repressione è soltanto una delle strade lecite percorribili per affogare il dissenso nella paura: l’altra prende il nome cristallino di pacificazione. Sotto quale egida quest’opera di pacificazione debba dispiegarsi, sotto la protezione di quale garante essa debba porsi, sono le diverse dichiarazioni ufficiali a suggerirlo. Come quella di Maria Falcone, secondo la quale “oggi lo Stato ha subito un duro colpo al cuore”, come se l’atto di ammazzare una ragazzina conducesse, senza alcuna soluzione di continuità, a colpire lo Stato – entità ipostatizzata nel sangue, a spese delle vite altrui – , come se, di converso, l’atto di colpire lo Stato dovesse necessariamente passare attraverso la morte di ragazzi qualunque. Inversione pericolosa che chiama alla repressione, che vede in ogni dissenso il germe dell’assassinio e del terrorismo. Non solo: inversione che abbassa ogni singolarità qualunque al rango di vittima designata, alla stregua di carne da macello, scudo eretto a difesa del cuore inaccessibile e sempiterno dello Stato. Del resto, mai alcuno Stato è stato colpito, e men che meno a morte, attraverso la morte di singolarità qualunque; al contrario, esso si è sempre sentito in dovere di trarre nuova linfa dall’evento, rinsaldarsi, rinvigorirsi, chiamare altro sangue e cementare con questo il nuovo patto e la nuova alleanza. In tutto questo – nella battaglia per la legittimità e per la coesione, nella corsa alla pacificazione, nel frastuono delle bombe, nei sedicenti attacchi allo Stato e nelle sedicenti risposte dei deliri polizieschi e giudiziari, securitari ma soprattutto comunitari – si attende ancora chi sappia porsi in ascolto dell’abisso che è stato irreparabilmente scavato quella mattina. Abisso che a tutto chiama fuorché la sua cancellazione.
Michail

Senza legittimità è il potere

Senza legittimità è il potere. Ed esso lo è dal momento stesso in cui si pone come tale: dal momento stesso in cui si pone come semplice potere e non più come rapporto di potere, come tensione fra soggetti o singolarità (è la lezione di Foucault). E’ nel suo erigersi all’altezza autorevole di potere senza rapporto, senza misura e dunque smisurato, che esso si ritrova senza alcuna legittimità. Per questo, un potere che si voglia tale, un potere che abbia rigettato nell’accidentalità l’altro termine del rapporto, non può che mentire, e sostituire il rapporto di potere con un rapporto di menzogna (rapporto nel quale non è più in gioco la tensione fra due termini, bensì la violenza di un discorso che, parlato dal potere, si accanisce sulla vittima).
Affinché il proprio discorso non si risolva in menzogna, il potere dovrebbe lasciar parlare altrui in merito alla propria legittimità, l’altro termine del rapporto, il punto di vista esterno irriducibile al potere che per le teorie del garantismo (Ferrajoli) è presupposto essenziale per ogni dottrina democratica: laddove tale punto esterno manca, ecco che il potere si auto-fonda e si auto-legittima come valore in sé, occultando quella stessa relazione che lo costituisce e che permane come un debito insolvibile.
Non può darsi qualcosa come un passaggio legittimo dall’assenza di diritto al diritto: non essendo data in quanto tale, una simile pretesa di legittimità sarà sempre da instaurarsi, nell’après-coup con il quale il potere istituisce se stesso. In tal senso, Nancy può dire che «l’État n’est jamais en première instance que le coup d’État». Solo in seguito esso compirà quel particolare maneggio, quella menzogna, con la quale, hegelianamente, il falso si dimostrerà essere un momento del vero. In altri termini, solo successivamente la legalità delle procedure interverrà a supplire l’assenza di legittimità, a cancellarne la traccia. Fu il tentativo perseguito da Hans Kelsen con la sua dottrina pura del diritto, il quale aveva disatteso questione della legittimità, evitando così di mentire su essa, attraverso la formulazione di un ordinamento immanente a se stesso, la cui legittimità consistesse ormai soltanto nella sua legalità. Ma una simile legalità necessita di un credo e di credito, richiede una fiducia incondizionata verso il potere, creditore fraudolento che mentirà per il solo fine di ottenere fiducia. E’ proprio questa componente volitiva a determinare l’immancabile carattere teleologico di ogni menzogna, quale atto indirizzato a far credere, atto che si indirizza all’altro (vi è menzogna solo di fronte e nei confronti di un altrui) ma il cui scopo non è altro dal far credere. E questa fiducia», ricorda Schmitt, «resta il presupposto di qualsiasi costituzione che organizzi lo Stato di diritto nella forma di uno Stato legislativo. In caso diverso, lo Stato legislativo sarebbe un assolutismo ancor più complicato, la pretesa di obbedienza incondizionata sarebbe una manifesta violenza». La menzogna – la sua narrazione ed il credito ad essa concessa – risulta essere così il solo elemento che distingue la violenza manifesta da quella dissimulata.
Michail

Incongruenze

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Le inconguenze del Governo Monti sono molteplici, ma studiate talmente bene che sono impercettibili.
L’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni è una cosa assurda se poi metti il limite che gli isctutturi di scuola guida posso insegnare solo fino a 60 anni. Per i rimanenti 7 anni che fanno? Si cercano un altro lavoro? Chi non vorrebbe assumere un super giovane sessantenne che sa fare una sola cosa nella vita? Per non parlare poi delle vagonate di giovani disoccupati, che aspettano con ansia di occupare il posto di chi per raggiunti i limiti d’età, si ritira dalle scene del lavoro. Chi era già pronto a lasciare o vedeva il traguardo della pensione vicino, dovrà ancora attendere e concluderà gli ultimi anni della sua vita lavorativa svogliato e deluso perchè gli si è tolto da sotto il naso una cosa sua di diritto, la tanto agonata pensione.
“I giovani si devono abituare a non aver più un posto fisso. Poi diciamoci la verità. che noia il posto fisso!”. Compliemti per questa sparata Presidente Monti! Peccato che senza un posso fisso molte porte si chiudono. Come la possibilità di avere un prestito in banca, la possibilità di ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa…
E i datori di lavoro? Spenderanno tutte le volte soldi per regolarizzare le assunzioni o i rinnovi dei contratti? Si andrà ad incentivare il lavoro in nero che in Italia detiene già una percentuale maggiore rispetto a quello regolare. E questo con il sistema contributivo delle pensioni cosa porterà? A delle pensioni da fame, ammeesso che si riesca ad arrivare ad ottenerla.
“Il Governo tecnico è la soluzione migliore per uscire da un periodo di crisi perchè non è limitato da tutti i giochi politici”, questo era il ritornello che ci inculcavano qualche mese fa.
Sarà anche vero che non è ancorato dai favori politici, ma non si fa problemi a sfornare provvedimenti che vanno a favore di chi detiene realmente il potere all’interno di uno stato, banche e grandi aziende che producono economia.
L’altra sera ho sentito delle dichiarazioni di Veltroni che affermavano che grazie a Monti ci siamo salvati all’ultimo visto che eravamo sull’orlo di una catastrofe. Personalmente se questi sono i provvedimenti per salvarci, avrei preferito la catastrofe per vedere se finalemente il popolo di pecoroni come siamo noi italiani si sarebbe svegliato e avrebbe iniziato seriamente a lottare per i propri diritti.
Matte

Le profezie di Noam

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In questi giorni sono incappato in un interessante saggio di Noam Chomsky del 1990 intitolato “Contenere la minaccia della democrazia”. In questo breve scritto l’autore prende le mosse dalle riflessioni del filosofo illuminista David Hume, il quale, cercando di interpretare le origini e i principi delle forme di governo, riteneva che «siccome la forza sta sempre dalla parte dei governati, i governatori non hanno altro per sostenersi che l’opinione. E’ perciò solamente sull’opinione che si fonda il governo; e questa massima si estende ai governi più dispotici e militarizzati, nonché a quelli più liberi e popolari». Per Chomsky la realtà è però ben più arcigna e la storia ci mostra come l’idea secondo cui la forza stia dalla parte dei governati sia per lo meno discutibile. Malgrado ciò, il Noam, ritiene interessante l’intuizione di Hume e sostiene che essa riveli un “paradosso” reale: «perfino il governo tirannico si fonda in certa misura sul consenso e la cessione dei diritti è il segno distintivo anche di società più libere». Inoltre, ed è questo un aspetto centrale del saggio, ai nostri giorni la concezione del David è stata rielaborata con una cruciale innovazione: «il controllo del pensiero è più importante per i governi liberi e popolari di quanto lo sia per i governi tirannici e militarizzati». La logica è del resto molto semplice. Mentre una tirannia può controllare il nemico interno con la forza bruta, ad un governo (presunto) libero serviranno altri strumenti per impedire che le masse interferiscano nella sfera pubblica e tutti gli sforzi saranno orientati a ridurre il popolo in condizioni di passività politica. Perché ciò accada servirà che, come sostiene lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, «la maggioranza deve rassegnarsi a consumare fantasia. Si vendono illusioni di ricchezza ai poveri, illusioni di libertà agli oppressi, sogni di vittoria agli sconfitti e di potere ai deboli». Va detto che quello che abbiamo definito il “paradosso” di Hume sorge solo nel momento in cui accettiamo, come premessa, che l’istinto per la libertà sia una caratteristica della natura umana. E’ infatti l’impossibilità ad agire in base a quest’istinto che spinse Rousseau a formulare la classica doglianza dell’uomo che nasce libero ma si trova ovunque in catene. Sicuramente non concorderà con questi discorsi chi esclude che la libertà sia un diritto, ma per chi adotta la norma di buon senso secondo cui la libertà è un bisogno essenziale si troverà sostanzialmente d’accordo con il filosofo Bertrand Russell quando sostiene che l’anarchia è «l’ideale supremo a cui dovrebbe avvicinarsi la società». Torniamo però al paradosso e alla sua declinazione contemporanea per cui il controllo politico e culturale è più importante per i governi non dispotici. «Diventando la società sempre più libera e diversificata», sostiene Chomsky, «indurre alla sottomissione è sempre più complicato e svelare i meccanismi di indottrinamento diventa ancor più difficile». Abbiamo già detto che Noam non è convinto, come David, rispetto al possesso della forza e si chiede fino a che punto essa sia davvero dalla parte dei governati. Spesso si ritiene che le società siano libere e democratiche nella misura in cui è ridotta la coercizione statale. Questa è però la classica illusione liberale e se così fosse gli Usa sarebbero di gran lunga il paese più libero, ma è chiaro come lo stato sia solo un segmento del nesso di potere. «Il controllo su investimenti, produzione, commercio, finanza, condizioni lavorative ed altri aspetti di politica sociale risiedono in mani private, e lo stesso vale per l’espressione retorica, ampiamente dominata dalle grandi società che vendono il pubblico agli inserzionisti pubblicitari e che riflettono ovviamente gli interessi dei loro proprietari e dei loro mercati».
Fino a questo punto il saggio in questione non dice in realtà nulla di nuovo, si potrebbe dire che è il buon vecchio Chomsky di sempre. Quello che però mi ha colpito molto, al punto di volerlo condividere il più ampiamente possibile, è quanto l’autore riporta a riguardo della figura storica del presidente Reagan e i sinistri parallelismi che mi sono venuti in mente con le recentissime vicende politiche italiane. Dando per assodato che grazie a meccanismi ormai noti (e aggiungerei particolarmente palesi soprattutto in tempi di crisi economiche e governi tecnici) il potere privato impone rigide limitazioni alle azioni dei governi, Noam ritiene a proposito che gli Stati Uniti rappresentino un caso eccezionale in cui è salvaguardata quasi completamente la libertà dalla coercizione statale, ma la vita politica rasenta la più assoluta povertà. «Esiste sostanzialmente un unico partito, quello degli affari diviso in due fazioni [….] il sistema ideologico è limitato dalla virtuale unanimità dei privilegiati e le elezioni sono ampiamente un vuoto rituale [….] peraltro metà della popolazione non si reca nemmeno alle urne, e l’altra metà che si disturba a farlo vota spesso consapevolmente contro i propri interessi». Queste tendenze hanno subito, secondo la ricostruzione di Noam, una brusca accelerazione durante la presidenza Reagan (1981-1989). Infatti, contrariamente a quanto possiamo immaginare, la popolarità del presidente conservatore «non è mai stata particolarmente elevata; anzi, gran parte della popolazione sembrava sapere che il presidente era una creazione mediatica, dalle idee piuttosto annebbiate sulla politica governativa». Al di la dell’idea che ci sia un unico partito degli affari, cosa che mi pare ormai lapalissiana nella convergenza pd e pdl sul governo dei tecnici, la prima sinapsi personale riguarda, a mio avviso, una notevole somiglianza tra la descrizione chomskyana di Reagan e quanto potremmo dire noi di Berlusconi. Sul «prodotto mediatico» credo che saremo più o meno tutti d’accordo. Leggendo poi i passaggi sulla popolarità che «non è mai stata particolarmente elevata», un po’ sorridendo, pensavo a quante volte in questi anni mi interrogavo perplesso su quanto fosse difficile conoscere, nella vita quotidiana, gente disposta ad ammettere pubblicamente e orgogliosamente di aver votato per Silvio convinta, perché gli piaceva profondamente. Proseguendo la lettura del saggio troviamo scritto, sempre riferito a Reagan, che «oggi lo si ammette pubblicamente; il “grande comunicatore” è scomparso nell’oblio totale nel momento esatto in cui non c’era più bisogno di lui affinché leggesse, come aveva fatto in quasi tutta la sua vita, i testi che gli scriveva la gente danarosa. Dopo otto anni di finzione sulla “rivoluzione” attuata da Reagan, nessuno si sogna di chiedere al suo vessillifero cosa pensa su qualsivoglia argomento, dal momento che si sa [….] che non sa cosa pensare». Qui, visto la natura inquietante del parallelismo a mio avviso sostenibile, il sorriso mi è completamente scomparso. Ciò a cui alludo sono le dimissioni di Berlusconi e l’apparizione di Monti. Al di la delle imbarazzanti barzellette e degli scandali sessuali, negli anni non sono riusciti a far scricchiolare minimamente “la rivoluzione liberale” di Berlusconi nemmeno i movimenti sociali che pur ci sono stati. Basti pensare all’opposizione di massa fatta dal mondo della scuola alla riforma Gelmini o alla grande vittoria ai referendum di giugno. Poi il copione di sempre: cortei, scioperi della fiom, occupazioni, no-b day vari e così via, tutto vano. A far cadere Berlusconi, «nel momento esatto in cui non c’era più bisogno di lui», è stato lo spread. Ora ci governano dei personaggi non eletti da nessuno, il loro capo è un advaisor della Goldman Sachs. Bella vittoria, certo! Ma non dei governati, ma del Governo dei governi. Continua Chomsky riguardo alla presidenza Reagan: «per tutti gli anni Ottanta gli Usa hanno funzionato senza un capo esecutivo. Si è trattato di un grande passo in avanti verso l’emarginazione popolare. Era come se si tenessero elezioni ogni tanto per scegliere un re che esegue compiti rituali». Poi il gran finale: «in quanto democrazia capitalista più avanzata e sofisticata, gli Stati Uniti hanno spesso inaugurato l’invenzione dei mezzi per controllare il nemico interno, e senza dubbio l’ultima ispirazione sarà emulata altrove, con il consueto ritardo». Caro Noam, ci avevi visto giusto e visto lungo, il nostro ritardo rispetto al modello Usa è di ventitre anni. Cazzo, la mia età!
Rifiuto